Che ormai siamo abituati a estremizzare tutto, e accorgerci solo di quando la notizia assume gli aspetti del paradosso per rimaner colpiti giusto quel tanto, fino a che un’altra sparata arriva a occupare il posto della precedente.
Eppure, la provocazione di Alessandro Borghese continua a tener banco anche a distanza di settimane. Perchè tocca due temi decisamente scottanti, che montano da tre generazioni abbondanti e hanno decretato la morte della classe media. E allora, sono i giovani a non voler lavorare o sono gli imprenditori (del settore della ristorazione) a essere dei farabutti? In medio stat virtus. O meglio, la questione non è risolvibile in due frasi fatte. Ne ho parlato con Dana Gomotriceanu e Cristiano Cianciarelli del Piccolo Chalet di Alba Adriatica, un ristorante di pesce sul lungomare a due passi dalla spiaggia. Che, per inciso, sono i miei datori di lavoro. Perchè anche io ho fatto una scelta personale che sa un po’ di esperimento e di sfida, e mi sono trovata nel cuore del problema che Borghese avrà pure tirato fuori, ma che riguarda l’intero settore del turismo in Italia. Un problema concreto e non teorico, che va analizzato là dove questo lavoro si realizza, giorno dopo giorno.
Allora, chi è il fannullone e chi il bandito? In realtà è una commistione tra le due cose. La questione va vista da destra e da sinistra, come scriverebbe sicuramente meglio Giovanni Guareschi, e con un acume maggiore. Ma ci provo.
Intanto, il contesto sociale è un elefante invisibile che ingombra e parecchio; anche di più, in un locale pieno di bicchieri e calici…
“I ragazzi crescono in una maniera molto diversa dalla nostra”, dice Cristiano, classe 1980, abruzzese doc, che con Dana forma la coppia di gestori più longeva di Alba Adriatica (anche se a vent’anni, per iniziare la loro attività, hanno dovuto avere tre garanti). “Mio padre non mi ha mai dato una lira. Io non avevo soldi in tasca, ero sempre squattrinato. In più, a casa avevamo un’educazione super rigida, per cui per me il lavoro a 16 anni ha rappresentato indipendenza economica ed emancipazione verso il mondo”. Solo così lui poteva avere qualche soldo da spendere con gli amici nel fine settimana. Estremo? No, nessun ragazzo è stato maltrattato all’epoca della sua adolescenza. Era molto naturale imparare il giusto valore delle cose da un’educazione di questo tipo, la regola. “Ora – prosegue Cristiano – il sabato sera i padri danno 100 euro ai figli per divertirsi”. E a casa – aggiunge Dana, che da Bucarest è arrivata in Italia dopo la Rivoluzione e un’infanzia e un’adolescenza vissuta nel parzialissimo mondo comunista della dittatura – “a casa hanno un’educazione più libera e non esiste nessun motivo per cui oggi un ragazzo di diciott’anni debba lavorare”.
E questa è la cornice. Ma non basta. D’altra parte e nello stesso tempo, l’impresa ristorativa italiana si è fondata sulla frode fiscale. “Il 99% dei ristoranti, se non evadessero, sarebbero chiusi”, dice Cristiano, senza nessun tipo di inflessione nella voce. Si tratta di una constatazione, molto simile a quella precedente sull’evoluzione culturale. Ma c’è un passo ulteriore. Mentre un tempo i ragazzi erano disposti ad accettare questa situazione elastica, con una parte di compenso fuori busta, oggi non lo fanno più. “Non c’è bisogno di soldi. Si preferisce aver meno ore o più tempo, oppure esser parte di un progetto che coinvolga anche emotivamente”, dice Cristiano. C’è forse una maggiore consapevolezza, dicevo io prima. Ma poi ho iniziato la stagione e aggiungo che il lavoro del cameriere è come quello del contadino, per cui “la terra è bassa”. Non lo nego dal primo minuto: in sala, come in cucina, il lavoro di pulizia, preparazione, contatto con il pubblico, servizio, ri-pulizia e chiusura, svolto tutti i giorni, richiede un grande dispendio di energia.
Ma c’è dell’altro. C’è anche un discorso di monte ore da affrontare che, in questo momento storico, nessun contratto collettivo nazionale riesce a inquadrare davvero. Il settore turistico nella sua totalità sfugge a qualsiasi regolamentazione. In parte, in epoca di pandemia, questo è emerso anche per tutto il personale medico; nella ristorazione e nel turismo in generale, nel settore in l’Italia potrebbe tranquillamente essere leader mondiale da decenni, il meccanismo è inceppato da tempo, con larghissime zone d’ombra.
“Anche in cucina la legge vorrebbe 6 ore e 30 al giorno; e questa è un’unità che non esiste”, spiega Cristiano. “Non c’è una normativa che regoli e consenta davvero un normale svolgimento di una routine quotidiana di cucina”. Ancora una volta, facciamo l’esempio pratico. In una realtà ristorativa come il Piccolo Chalet, che prepara tutta la linea ogni mattina e poi serve antipasti, primi piatti e secondi tutti preparati al momento da zero, a pranzo e a cena tutti i giorni, quell’unità di lavoro quotidiano è infattibile. Aggiungiamo il servizio di sala, con un tovagliato nuovo ogni giorno, il personale in un luogo aperto dalla mattina per la colazione… “L’80% di posti come il nostro andrà a morire. Ne rimarranno pochi ad appannaggio di clienti ad alto potenziale di spesa e la ristorazione andrà verso un’americanizzazione in cui non ci sarà bisogno di talento”, constata Cristiano. Non ci sarà bisogno di capire cosa si sta facendo, ma si tratterà di mettere in atto delle procedure semplici e ripetitive. “in questa nuova tendenza, se domani va via il cuoco, nel giro di due giorni una qualsiasi persona potrà essere formata per lo stesso compito”.
Bisognerebbe ripensare al sistema turistico nella sua totalità, dove le ore si concentrano in determinati periodi dell’anno. Uno stagionale che vuole condensare, ad esempio, in sei mesi le ore di lavoro di un anno non può. “Come noi che siamo operatori di settore, anche il collaboratore stagionale vorrebbe fare lo stesso. Ad oggi, non esiste condizione che permetta di regolarizzare questo modo di concepire la propria vita lavorativa”, conclude Cristiano.
C’è solo una domanda da porsi, senza scagliarsi contro nessuno: perchè? Perchè una persona non può scegliere di fare un’esperienza intensa che permetta di avere altro tempo a disposizione per viaggiare, ad esempio, o dedicarsi allo studio o ad altro? Un’esperienza di lavoro che, allo stato attuale e senza nascondersi dietro un ombrellone, prevede già 10/12 ore di lavoro al giorno che in qualche modo vengono svolte, nei ristoranti, nelle gelaterie, negli stabilimenti balneari, per non parlare degli alberghi… perchè? Quanto un lavoratore potrà trovare scuse nelle pieghe di un contesto sociale mutato e quanto un imprenditore potrà continuare a fare il farabutto? E quanti improperi dovrà ancora sorbirsi Borghese, senza considerare dove sta davvero l’imborghesimento?
Tutta questa energia nella polemica si potrebbe impiegare nel servizio. Ma poi, una sera, arriva a cena un altro ristoratore della zona, che parla della stessa difficoltà nel trovare personale e condivide una storia. Quella di un signore in età di pensione, cameriere per tutta la vita, che entra a proporsi perchè sapete, le spese, le bollette, il figlio all’università…che già studia tutto l’anno, poverino, non posso mica mandarlo a fare la stagione in estate, che deve riposare e divertirsi. Lui.
E allora cosa manca? Il lavoro o la voglia?
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Sabrina Carrozza