” Ma, in ogni caso, resta sempre una apposizione di principio: vi sono da un lato coloro che conoscono solo la “vita” e che quindi non cercano che la prosperità, la ricchezza, il benessere, l’opulenza; dall’altro lato vi sono coloro che aspirano a qualcosa più che la vita, alla gloria e alla vittoria in una lotta interiore quanto esteriore. Le Guardie di Ferro appartengono a questa seconda schiera. E il loro ascetismo guerriero si completa con una ultima norma: col voto di povertà a cui è tenuta l’élite dei capi del movimento, con i precetti di rinuncia al lusso, ai vuoti divertimenti, agli svaghi cosiddetti mondani, insomma con l’invito ad un vero cambiamento di vita che noi facciamo ad ogni legionario”
Molti anni fa, credo una ventina, la penna e firma più autorevole del postfascismo italiano- ossia Giano Accame, scrittore, economista, direttore del Secolo d’Italia, studioso di Ezra Pound e cultore sin dal 1964 del movimento di Randolfo Pacciardi per la democrazia diretta- scrisse un pezzo su Giuseppe Valerio Fioravanti (e la sua compagna, Francesca Mambro) dal titolo ‘Io non ti giudico, Giusva’. Una evidente, coraggiosa presa di posizione di un uomo di quasi 70 anni- Accame – che esprimeva la sua umana comprensione per un (fu) ragazzo che aveva nutrito le sue stesse idee ma che scelse la via della lotta armata, pagata con la galera e il marchio a vita della dannazione (terrena).
Si parva licet componere magnis (io non sono Giano Accame, e Francesco Baj non è certo un terrorista) oggi mi trovo nella medesima condizione. Vivo la condizione di persona che nutre, ha sempre nutrito e sempre nutrirà una stima umana profonda, incondizionata, cameratesca (si dice tra quelli che la pensano come noi) per un ragazzo di 31 anni che attualmente è dietro le sbarre di un carcere.
Ho conosciuto molte persone, oggi molto avanti con l’età, che hanno provato sulla loro pelle la galera per reati politici. Persone che hanno ucciso altri uomini, anche. E so benissimo cosa si nasconde in fondo ai loro occhi. Un dolore lancinante, indomabile, acuto. Assieme alla fierezza, all’orgoglio per quello in cui hanno creduto da ragazzi, passando larga parte dei loro giorni migliori in una galera. E per il peso di errori commessi e da cui NON si torna indietro.
Leggo ricostruzioni e accuse ai confini della realtà; il Corriere della Sera ha ripreso ieri una intervista che il sottoscritto fece a Francesco tempo fa, quando si rivelò sinceramente per quello che è, un militante dell’Idea che non va in Kosovo per sport, ma per soccorrere le comunità cristiane ortodosse di Serbia. Che raccoglie fondi per i cristiani palestinesi, organizza serate di finanziamento per organizzazioni attive dove la grande stampa (quella che l’ha prontamente messo sul patibolo) ha dimenticato da lunga pezza.
Francesco Baj è così: occhi di fuoco, tempra di ghiaccio, una soverchiante forza di volontà, l’orgoglio di appartenere a una famiglia (Lealtà Azione) che si rifà a valori premoderni, eminentemente cavallereschi, che fanno sorridere chi vive immerso nella vastità odierna del nulla ben descritto da Nietzsche un secolo fa.
Lealtà Azione può piacere o non piacere; noi abbiamo cercato di far capire come la loro principale attività sia quella di insegnare ai 20enni di oggi a non ripetere i tragici errori di certa parte della destra radicale di 30, 40 anni fa: la via della violenza e lo scontro con l’avversario politico, sino alla morte su piazza o per strada. E con una compostezza, uno stile, una modalità di Essere che chi tramesta nel torbido afflato con le frange sinistre che sputano su alpini di 80 anni, che inneggiano alla morte di avversari politici, che con la scusa dell’inquietudine devastano strade e città non potranno mai cogliere. Loro e chi li fiancheggia, con una penna o pestando i tasti di un Pc.
Certo, il reato del quale Francesco dovrà rispondere NON ha natura politica, NON c’entra nulla con l’attività di Lealtà Azione ma con le frange del tifo organizzato più radicale. Quelli per cui esiste una mistica dello scontro, anche fisico (chiunque abbia visto il bellissimo ‘Hooligans’, con Elijah Wood, sa di cosa parliamo), che poi può sfociare nella più drammatica delle conseguenze: la morte.
E allora ci siamo confrontati con Checco Lattuada, un nome importante del mondo ultras calcistico lombardo (e non solo), colpito 3 volte da Daspo ma anche assolto 3 volte da processi analoghi a quello che vede coinvolto Francesco Baj (quindi a tutti suggeriamo una maggiore morigeratezza, nei commenti).
‘Vedi Fabrizio, il mondo ultras rimanda a qualcosa che ha a che fare con la visione organica del mondo, dove ogni ragazzo viene accettato per quello che è, dove non esiste classismo ma il più sincero interclassismo. Dove le gerarchie si formano naturalmente, assieme ad uno spirito di corpo, ad un’amicizia, che non si trova in nessun altro ambito della vita odierna. Il tifo, il mondo ultras e tutto quello che ne consegue, segna il tramonto dei corpi intermedi e di tutte quelle realtà aggregative, oggi scomparse, di cui ci si nutriva in gioventù”.
Così ci ha detto, Checco Lattuada. E da qualche parte nella rete, dove assieme a tante imbecillità si trovano anche perle di sbaragliante intelligenza, abbiamo trovato qualcosa che (forse) fa al caso nostro.
“Non avete capito che lo spettacolo è allegoria e ha tanta più forza quanto più il simbolo viene evocato in maniera chiara. Che il rito di passaggio per i giovani allo stato adulto, passa attraverso il conflitto fisico e che quello interiore è troppo debole per essere definitivo. Che la violenza è parte dell’uomo e la società è risultato della tensegrità tra forze contrapposte. Che negare la fazione è rinnegare la storia non dell’italia, ma dell’Europa e del mondo. Che rinchiudere la morte di un ultra nello stereotipo del facinoroso privo di valori significa aver perso di vista il primo e preminente dei valori stessi: il gruppo come espressione e annullamento dell’individuo in una entità superiore. (cit. Vittorino Andreoli) Che morire è drammatico, ma vegetare non è da meno. Che ogni individuo esercita un’opzione con le proprie scelte, ma poi il Destino, il Fato scombina le carte. Che riportare tutto al “se l’è cercata” vale anche per chi alla mattina esce per strada e accede alla statistica dei 19 morti ogni ora nell’italia del 2018. Che essere ultras non significa per forza essere oltre: la voglia di tornare a casa, di essere felici in famiglia, di avere un lavoro stabile, di invecchiare.
Non li conosco e non posso dire di averli in simpatia. Mi sembra esagerato l’afflato e il credo che mettono nella loro appartenenza sportiva. Ma vedo il riconoscersi in una bandiera e sostenerla e non permettere che venga derisa e infangata. Sento il pulsare dei cuori a difesa di un confine, di un territorio, di uno spazio e l’essere pronti a difenderlo o espanderlo. Mi pare rilucere il rispetto dei Vikings dell’Inter verso i Granata Korps o le Brigate Autonome Livornesi. La politica spariglia, divide e connota ma alla fine i comportamenti equalizzano tutto”.
Spero possiate aver capito. Francesco Baj è uno di quei ragazzi che come me, quando avevo la sua età, hanno sempre avuto una platonica ‘sete dell’assoluto’. Se non ce l’avete, non potrete mai capire i grandi afflati. Che possono anche sfociare in errori. E non capirete mai quelli come me, che difenderanno a oltranza uno ‘come noi’ che ha sbagliato. Posto che poi, il prezzo delle proprie scelte, lo si paga. E a carissimo prezzo, se come noi porti ‘certe croci’ al collo, o certe Idee al fondo del cuore. Per questo, e per molto altro ancora, io non ti giudico, Francesco.
Fabrizio Provera