Il dramma. Forse mai dal dopoguerra, come in questi giorni, lo scritto (lo so: scrivere di un testo consegna all’irrilevanza) di Henry de Lubac marca il nostro destino. Pubblicò “Il dramma dell’umanesimo ateo” nel 1944, anno orribile di un decennio ecatombale cui seguì il successivo, in una Francia occupata dai nazi e dai collaborazionisti che facevano con vigore il mestiere di Dio distribuendo vita e morte. Poi venne la pace, la lunga pace di questi decenni, il bene prezioso in cui siamo vissuti così a lungo che ora non siamo più capaci di comprendere la libertà di scegliere tra il bene e il male. Anzi, viviamo nella gran luce della scienza e della ragione, nel palazzo di cristallo privo di ombre. Di quell’ombra che suggerisce di scrutarla chiedendo, la sua richiesta invoca, chi sia l’uomo, come sia. La gran luce insegna, meglio impone, a valutarlo, l’uomo, per quello che fa. Che sa fare. Nella sua pura espressione di puro materiale applicata alla pura materialità. Qui la collimazione tra nazismo comunismo e capitalismo è abissale. Perfettamente scientifica dunque la risposta dell’Alta Corte di Giustizia inglese, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in merito al neonato Charlie. Egli infatti deve morire per la felicità sua propria che gli è negata, in natura, dalla malattia che statisticamente, rara, non può essere guarita (altro concetto il curare). Umanissimo, in apparenza di splendida superficie levigata, il colpo di grazia: fine del dolore. Starà poi alle Corti, magniloquenti, magari in un prossimo domani, avviarsi nello specifico della felicità. Il dramma dell’umanesimo ateo, il lieto fine è precluso poiché proibita, ex lege, pure la misera stella della speranza, ci consegna, tutti, all’irrilevanza della tragedia inascoltata. A questo punto, l’uomo è inutile. Occorre un neologismo, per uomo. Che lo identifichi depurato dal suo pulsare spirituale. Un riproduttore.
E.T.