Se un gigante come Joe Strummer – per chi scrive, il più grande di tutti – dice di te che sei il più talentuoso poeta vivente, allora è molto probabile che la tua arte sia qualcosa di davvero speciale. Il compianto leader dei Clash, nonché icona di ogni popolo in lotta, aveva per Shane MacGowan una venerazione assoluta ma, fortunatamente, non era il solo in questo mondo. Di quanto fosse importante per noi lo ricordiamo oggi, purtroppo all’indomani della sua morte, magari ascoltando il suo pezzo più famoso, forse non il meglio riuscito in assoluto, che le radio, anche quelle che non lo hanno mai calcolato in vita, da ventiquattrore passano ininterrottamente: ‘Fairytale of New York’, il brano scritto in proprio e cantato insieme a Kirsty MacCall.
Natalizio e struggente, perché non riguarda il lusso connesso della festività come tante altre insipide ballate che l’hanno preceduto e che faranno seguito, ma parla degli ultimi, di quelli dimenticati anche a Natale, che tra una bottiglia e l’altra non smettono mai di stare appesi alla vita che sembra non volerli contemplare. L’avevamo rimosso, peccato tornare a canticchiarlo ora, adesso che Shane dopo una tremenda agonia ha smesso di essere uno di noi. A beneficio di chi se la fosse persa, racconta la storia di un irlandese alcolizzato sbattuto in una cella di New York che, ascoltando il compagno di cella, ubriaco anch’esso, fischiettare una celebre melodia popolare irlandese, si commuove ripensando alla donna amata immaginandosi che il tempo insieme sarebbe arrivato. Insomma, per Babbo Natale, luci colorate e vie dello shopping rivolgersi altrove. Shane, con uno scritto più volte attaccato dalle truppe cammellate della censura bacchettona, ebbe così il pregio di ricordarci che non c’è Natale se non è per tutti.
Scrisse pezzi anche più iconici, l’invito è quello di andarli a cercare, tanto che Sinead O’Connor lo definì un angelo, anche se perennemente vicino all’epilogo. Aveva 65 anni per l’anagrafe ma il fisico violentato da alcool ed eroina ne percepiva parecchi di più, tanto che sono in molti ad aver aver provato stupore nel sentire l’annuncio pensando che Shane fosse già morto da tempo. Invece, da tempo era bloccato su una carrozzina con troppa poca lucidità e quell’immagine per anni ci ha stretto il cuore, come le volte in cui vedi un amico prendere e buttarsi via. È proprio andata così.
A lui e ad i Pogues, il suo gruppo per diverso tempo, il punk deve molto. E molti sono quelli che dicono che in quell’ambito tante cose, senza di lui, sarebbero andate diversamente, ad occhio e croce peggio ma noi siamo di parte. La sua, quella della rabbia di chi, davanti alle ingiustizie sociali perpetrate della Thatcher non china il capo; quella dell’autodeterminazione della sua terra, l’Irlanda, e dei suoi troppi morti per mano degli occupanti inglesi; quella della giustizia, meravigliosamente descritta nel pezzo dedicato all’omicidio di Garcia Lorca, uno che, al pari di lui, alle parole riuscì a dare del tu. Nato in Inghilterra, per ironia del destino proprio nel giorno di Natale, Shane si stabilisce presto in Irlanda, la sua origine, scegliendo le campagne di Tipperary abitate dai nonni. Un gigantesco luna park, come ebbe modo di dire raccontando la gioia di prati senza soluzione di continuità. Leggenda vuole che la vita musicale di Shane cambiò assistendo ad un concerto londinese dei Sex Pistols. È sotto al palco, quella notte, ad assorbire l’energia esplosiva di Johnny Rotten e compagni quando è un accordo stonato a dettargli la via.
Torna a casa e fonda la sua prima band, i Nipple Erectors, insieme alla fidanzata dell’epoca ed il resto è storia. Proprio Rotten, provocatoriamente lo chiamava ‘Brit’, l’inglese, schernendo quella sua giacca siglata, chissà poi perché, dalla bandiera di Sua Maestà la Regina. Shane, in tutta risposta, cominciò a vagare per Londra con una gigantesca scritta IRA stampata in fronte accompagnato da una pecora al guinzaglio. Come a voler dire ‘Hey, Johnny, guardami bene, sono un irlandese”. Così, arriveranno presto i Pogues a far saltare in aria la nutrita comunità irlandese di stanza a Londra, animata e rinfrancata da quei racconti di rabbia, usanze, alcolismo, donne, povertà e riscatto.
Non era certo facile essere un irlandese a Londra in quel periodo, al culmine del ‘Troubles’, come quelli di lingua inglese definivano con sdegno la questione indipendentista, e ancora peggio per uno come Shane che la società benestante avrebbe relegato volentieri ai margini perché non omologato. Difficoltà che divenne forza, forza che si tradusse in musica, note bagnate da quella che i suoi compatrioti chiamano ancora oggi ‘water of life’, il whisky, letteralmente acqua della vita. Una vita, quella di Shane, troppo in fretta giunta al capolinea. Una tempistica inversamente proporzionale al suo lascito, patrimonio di chi, come lui, ha scelto il lato più scomodo della barricata, quello dei meno fortunati.
“Ora la canzone sta per finire / Forse non lo sapremo mai cosa significhi / Ma ho comunque una luce davanti a me / Sei la cifra dei miei sogni, la cifra dei miei sogni”.
Ciao, amico Shane, fa’ buon viaggio. Ci si becca sotto al palco.
Qualche scampolo della grandezza di Shane:
https://www.youtube.com/watch?v=PSyL-TrD_2g
https://www.youtube.com/watch?v=j9jbdgZidu8
Irlanda libera