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Luca Vanni, se la classe operaia (tennistica) va in paradiso- di Teo Parini

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Melbourne, qualche mese fa. L’incontro si è concluso da poco e non è andata bene. O meglio, è andata alla grande ma Luca ha finito per perdere una partita estenuante dopo aver accarezzato a lungo la possibilità di spuntarla contro un avversario più forte in quel suo tennis sparagnino e contemporaneo. La fasciatura generosa sfoggiata dal lungagnone di Foiano della Chiana tradisce un ginocchio malandato che da settimane è un tormento, al punto che ogni spostamento è un’incognita dolorosa, e vien da sé che quattro ore di agone serrato sul cemento rovente non possano trascorrere indenni, tanto meno sul morale già violentato da un risultato che, se non ingiusto, beffardo lo è di sicuro.

Prima due set di vantaggio, poi il passaggio in solitaria sotto la flamme rouge con il traguardo distante tre piccoli quindici, infine la resa al colpo di reni. Una disdetta, quanto basterebbe per maledire uno sport troppo spesso restio nell’autorizzare deroghe alle gerarchie, anche quando potrebbe.

Animato dall’egoistica delusione tipica del tifoso che in poltrona quei cinque set li ha virtualmente giocati tutti e dalla sincera preoccupazione per i malanni di cui sopra, intercetto Luca ancor prima che doccia e massaggio ne leniscano i dolori. “Come stai?”, domando. E mentre lo immagino seduto negli spogliatoi frantumare una racchetta nell’intento di normalizzare la comprensibile frustrazione, la risposta che ricevo è spiazzante, nella migliore accezione possibile. “Accaldato”, dice, a cui fa seguito una risata che è un marchio di fabbrica. Non deve stupire.

Qualche anno prima, infatti, al culmine di una settimana (quasi) perfetta di quelle che nella vita di un uomo dedito allo sport rappresentano l’eccezione alla routinaria regola, Luca, distrutto da caldo, fatica e tensione, si trova in piedi davanti a una telecamera, impacciato come in ogni prima volta che si rispetti e con una buona fetta del mondo del tennis a guardarlo. Sta dall’altra parte del mondo, a San Paolo in Brasile, e lui, perfetto sconosciuto ai più, ha da qualche istante perso una finale ATP che negli ultimi cinque giri di lancette pareva essere vinta. E probabilmente sarebbe andata a finire così se solo uno smash, colpo che Luca non sbaglia praticamente mai, non lo avesse tradito sul più bello, rimettendo in corsa Pablo Cuevas, un tignoso tupamaro uruguagio di quelli avvezzi alla sopravvivenza nel pantano. Né rabbia né delusione sul volto stralunato e intriso di polvere rossa, è fatto così. La chiosa in mondovisione è l’istantanea di un uomo che, benché  depositario di una dote condivisa sì e no da un centinaio di persone sulla Terra, nutre lo spirito di un’eccezionale forma di normalità, conosce i valori della vita e dello sport, che poi sono la stessa cosa, e soprattutto non li trascina in inutili iperboli. “Vi amo tutti”, dice, con il treno più importante della carriera che si allontana forse per sempre e la memoria che corre svelta alle ore dedicate a una passione che è riuscito con abnegazione a trasformare in un lavoro comunque privilegiato, anche nella sconfitta più cocente. Il tutto con la serenità di chi, offrendo sempre la migliore versione di sé, non ha nulla da rimproverarsi. “Ti amiamo anche noi”, abbiamo pensato di rimando, con l’affetto che si riserva a un vecchio amico che non perde occasione per riempirci d’orgoglio.

Brescia, inverno 2016, Challenger cittadino. Non è Wimbledon ma quando un giocatore imbraccia la racchetta è come se lo fosse ogni volta. Luca divide il campo con l’amico Grigelis, in palio c’è il titolo. Partita anomala, come sempre quando a sfidarsi sono due atleti che si conoscono a memoria. La spalla è indolenzita, una noia, e il match sembra voler scappare via, quando il lituano ha a disposizione un match point dopo averne cancellati tre consecutivi: una situazione destabilizzante semmai ce ne fosse una. Sugli spalti non sono in molti ma quelli che contano ci sono tutti e fanno un tifo che riempie il cuore, il bello dello sport, e quel match finirà per vincerlo. È raggiante, Luca, un gigante buono al centro del campo preso d’assalto da bambini aggrappati ai calzoncini. Infischiandosene del protocollo li ha accolti con un sorriso dei suoi, ringraziandoli uno a uno con pazienza, umiltà e sincero entusiasmo. Perché, lo sa bene, sono proprio i momenti di condivisione che ricompensano con gli interessi ogni maledetta goccia di sudore spesa. Più delle coppe.

Quelli che abbiamo voluto raccontare sono alcune pillole di contagiosa semplicità estrapolate dell’album dei ricordi di un giocatore che non sarà della stessa genia di Federer – del resto chi la può vantare – ma in un tennis che sovente scorda le buone maniere continua a scrivere pagine dalle quali i giovani farebbero bene ad attingere anziché crucciarsi oltremisura per un diritto affossato in rete.

Caparbia follia. Quella che non può mancare se a sedici anni compiuti, e un’impietosa classifica da quarta categoria, ti convinci che non sia mai troppo tardi per ambire al gotha di un mondo chiuso e esigente. A maggior ragione, poi, se il primo punticino da professionista lo metti in cascina solo dopo i vent’anni nelle qualificazioni di un Futures qualunque, quando i coetanei che ce l’hanno fatta sgomitano da tempo sui palcoscenici più prestigiosi. E ancora, se ogni volta che pensi di fare sul serio, magari accantonando il lavoro di maestro al circolo o di montatore di cucine per l’azienda del babbo, il ginocchio emette un rumore sinistro e si rompe. Poteva quindi mollare tutto Luca, e nessuno glielo avrebbe rimproverato, accettare l’impiego da ragioniere per il quale, en passant, ha pure studiato e accontentarsi di guardare Nadal alla tivù, rinunciando quindi per sempre alla strada che solo lui ha sempre ritenuto percorribile anche a costo di sembrare visionario. Non lo era affatto. Ci sono voluti migliaia di chilometri, su e giù per il vecchio continente, con una macchina sgangherata carica di sogni e racchette, per raggranellare punti e accrescere in sé la convinzione di essere nel giusto. Tra soggiorni per squattrinati in luoghi improbabili e lotte senza quartiere sui campi di periferia, dove la pallina rimbalza un po’ come le pare e l’organizzazione è soltanto una parola. Per dieci lunghi anni è un infaticabile routard, quei giramondo sognatori che condensano ogni piccolo avere dentro lo zaino, semina tanto ma raccoglie così così. Il ranking è una scalata arcigna e non fa sconti, pragmatismo e determinazione sono però gli antidoti. Luca abbraccia l’arte dei piccoli passi e, al pari della celebre formichina delle fiabe, vive di lungimiranza. Lui che, ironia della sorte, è cresciuto nel mito del più inaffidabile di tutti, l’abbacinante Safin, cicala del tennis per antonomasia.

Il lavoro non sempre paga a dovere, quando succede è anche perché c’è del talento. Tanto. D’incanto il servizio scaraventato dal terzo piano con una meccanica fluida e elegante comincia a mietere vittime via via più illustri, la sbracciata tutta particolare tirata col diritto è una sentenza e il rovescio, il colpo più naturale del repertorio, garantisce quella varietà di effetti e traiettorie che nel tennis moderno fanno tutta la differenza. La mente, forgiata da anni di pane duro, getta le basi per il salto di qualità e comanda gambe e polmoni affidabili. Il vento cambia. Fatto sta che l’11 maggio del 2015, a qualche settimana dal trentesimo compleanno, indossato l’abito della festa Luca si presenta al banco del tennis per l’incasso. Lo attesta il computer, l’aretino è il centesimo giocatore più forte al mondo e quinto d’Italia, missione compiuta. Senza che la federazione ne abbia mai agevolato la crescita, fosse anche con una wild card, mai. Un cerchio si era dunque chiuso: il giovanotto dall’aria simpatica che si cimentava nei tornei delle vallate antistanti casa immaginandosi sul Philippe Chatrier, a Parigi ci è arrivato davvero. A modo suo.

Dalle giornate eroiche di San Paolo cui si è fatto cenno poc’anzi sono ormai passati quattro anni. Stagioni intense, inglobanti, nelle quali Luca, che non ha più la Fiat Bravo ma è rimasto lo stesso bonaccione di sempre, si è tolto più di una soddisfazione. La chiamata per la Davis e la partecipazione negli Slam, per esempio, i successi nei Challenger, ben cinque. Alcuni scalpi eccellenti, qualche passaggio televisivo, una consona popolarità, la salvezza nella massima serie con la minuscola realtà di Sinalunga, che sta al tennis come il Chievo sta al calcio. Due spicci in saccoccia, infine, perché va bene la passione ma al trenta del mese ci si deve pure arrivare.

Tuttavia non è ancora tempo di bilanci e le buone prestazioni inanellate in questo inizio di stagione ne sono la riprova, nonostante gli acciacchi fisici lo costringeranno a breve a tornare sotto i ferri per un pit-stop che si spera possa allungarne la carriera. Del resto per un inguaribile ottimista come Luca il torneo migliore della vita è senz’altro quello che deve ancora venire. Prendetelo pure per un pazzo, noi abbiamo imparato a credergli sulla parola. A presto, Lucone.

Teo Parini

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