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Dall'archivio:

L’inaudito Bene. Come stai? Non c’è Bene, grazie.. La grandezza di Carmelo Bene

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Nel 1994 il grande attore e regista Carmelo Bene concesse questa intervista al Mattino. Bene avrebbe compiuto ieri, 1 settembre, 84 anni. Rimane il più grande uomo di teatro italiano del Ventesimo secolo (e non solo)

Io, demiurgo perverso e iconoclasta

di Enrico Fiore

Per il suo splendido recital basato sui Canti Orfici di Dino Campana, Carmelo Bene si presenta sul palcoscenico dell’Augusteo con la faccia vistosamente incerottata. È chiaro: dopo aver stuprato il testo e il senso, intende sfregiare e azzerare persino la propria immagine. Ma, rarissimo miracolo, sono riuscito a far materializzare per un’oretta – in una suite dell’Hotel Excelsior, al lume di una candela e davanti a un registratore e a un piatto di dolci di pasta di mandorle – il divino e assoluto monarca dell’Assenza. E quel che segue è il poco che le deboli forze del vostro cronista hanno potuto catturare di un discorso ad un tempo fluviale, vertiginoso e “negato”.

Una volta Flaiano, con un fulminante ossimoro, disse di te: “È un Bene cattivo”. Ecco, quali sono il tuo ‘buono’ e il tuo ‘cattivo’?

Io non sono né buono né cattivo. Sono, rifacendomi a Cioran, un demiurgo perverso. E sono uno gnostico. Gli gnostici praticavano l’autoflagellazione, cercavano il vuoto, l’informe, l’inorganico. E in me, come in loro, non c’è, dunque, né il bene né il male, c’è solo il fastidio del corpo. Io, come gli gnostici, maltratto il corpo in favore dello spirito. Voglio, insomma, cancellare il corpo. E di qui la mia iconoclastia, il mio rifiuto dell’immagine e della parola, e, in breve, la mia tensione verso l’inaudito. E di qui, s’intende, anche i cerotti.

Ma in concreto che cosa sei?

Una macchina antilinguaggio.

Scendiamo, ora, sul terreno specifico. Tu hai detto che il teatro è “un bazar dei servi”. Cominciamo da quelli in scena, gli attori, che, sempre secondo te, “fanno solo quello che vuole il pubblico…”.

Sono servi comunque. Perché, anche se fanno quello che vogliono loro e lo fanno con una coscienza civile e ne fanno un fatto politico (della “polis”, cioè), siamo sempre di fronte alla “décadence” che Nietzsche rimproverava alla tragedia greca e, in altri termini, di fronte alla fine dell’“orfico”. Infatti, lo dice anche Hegel, ogni forma di coscienza è servile, giacché il padrone è la verità. Parlo, chiaramente, della coscienza del particolare. Bisogna conquistare, invece, la coscienza pura, quella che è al di fuori della storia. Perché il teatro è un non-luogo, è, appunto la coscienza pura: ma la coscienza pura non è applicata a qualcosa. In tal senso, il cosiddetto teatro impegnato, il teatro-comizio, per me è un’evasione, è tre volte evasione.

Evasione da che cosa?

Dal problema insolubile dell’esistenza senza scopo dell’uomo. Il teatro, in sintesi, ha messo da parte l’uomo, con tutta la sua in-esistenza, con tutta la sua insignificanza, occupando le tavole del palcoscenico al solo scopo di rimuovere questo problema, seminando concetti. Perciò, nel teatro moderno, il testo è diventato il protagonista, perciò si dice re-citare: cioè citare la “cosa”, cioè inserire puntualmente quanto è scritto. Ma il teatro, al contrario, può esistere solo in quanto è incomprensibile, in quanto è il nostro buio.

Servi anche loro, perché “si disoccupano”, ossia non scioperano. Informati dai giornali, e specialmente dai critici, vanno a teatro nella semplice attesa della rappresentazione: ma qui siamo bella re-presentazione, che segue alla re-citazione, che, a sua volta, sarà seguita dalla re-censione – non si sfugge, insomma. Siamo sempre alla “cosa”, al testo scritto e, in altri termini, alla tirannia della legge. E, in tal senso, tutti insieme – attori, spettatori e critici – quello che non vogliono è proprio il teatro, e tutti insieme sono impegnati a garantire che trionfino i soliti significati e niente resti impigliato tra i significanti.

Un attore, però, l’hai salvato: Vittorio Gassman…

Ma solo nel senso che – durante un convegno all’Argentina, mi pare – gli dissi: tu sei il meglio del peggio. E aggiunsi subito: cioè il pessimo, perché il meglio del peggio non può essere, appunto, che il pessimo.

E lui?

Si limitò a replicare con un: Questa non è male.

Ma se Gassman non è che il meglio del peggio, che cosa sarà mai Albertazzi, da sempre il tuo bersaglio preferito?

Beh, quello non lo citerei nemmeno.

Non esiste?

Non so, non sono mai andato a vederlo. Non m’interessa. La sua carriera? Diceva Oscar Wilde che solo la mediocrità fa progressi.

Riassumiamo: alla luce di quanto hai detto, che cos’è oggi il teatro?

In una società dello spettacolo – in cui capita che non solo i politici ma persino le casalinghe vadano a fare lo strip-tease in televisione – non è niente, è solo pulviscolo.

Passiamo a un argomento più piacevole, le donne. Una volta hai detto che anche a te piacciono molto, però a teatro “non servono”…

Peggio ancora, il giorno in cui nell’Ottocento, le donne tornarono in scena, fu un giorno funesto, voluto dal maschio, dalla cultura maschilista: perché, con lei, tornarono in scena le corna, gli amanti nell’armadio, i bambini, gli affetti, insomma tutto l’armamentario di quell’enorme presa per il culo che è il teatro borghese.

E i giovani?

Dovrebbero mettersi in testa che la giovinezza è fatta per studiare molto, per bere e per fare l’amore. Non è fatta per andare a scuola. È fatta per marinare la scuola, qualunque essa sia! Basta, in altri termini, con l’attendersi l’avvenire da nonno Stato, che poi, oltretutto, è uno stato defunto.

Senti, come hai trovato Napoli?

Per cominciare, noto che, mentre si parla tanto di napoletanità, vi si parla un napoletano bruttissimo. Non è il napoletano di Salvatore Di Giacomo, non è quello di Bovio, non è quello che a me può interessare, è brutto e basta. Aveva ragione Eduardo, insieme con il quale ho dato vari recital. Mi ripeteva sempre: tu devi dire Di Giacomo, anche, perchè i napoletani non lo sanno dire. E, in effetti, lui, Eduardo, e Roberto Murolo sono stati gli ultimi a saper parlare bene il napoletano almeno dal punto di vista della pronuncia. Ero dello stesso parere anche Mimì Rea, che pure non amava Eduardo. E, non fosse che per questo, Napoli mi sembra una città che si autocaltapesta.

È fottuta, assolutamente strafottuta, ma persiste nell’ostinazione di starsene chiusa in una specie di casbah della disfunzione e della scorrettezza. La mia non è una nostalgia del cosiddetto “civile”. Ma passare in auto contromano, salire sul marciapiede… nei taxi, i conducenti ti occupano anche il posto di dietro, seggono come se fossero in Formula 1: e quando gli ho chiesto di spostare più avanti il suo sedile, “devo stare comodo io”, mi ha risposto uno l’altra sera. E almeno fosse una casbah felice… Beninteso, io parlo da turco del Sud quale sono. E, perciò, voglio aggiungere subito una precisazione. Non è che le altre parti d’Italia siano una non-Napoli: penso, piuttosto, che Napoli sia il fuoco di una lente costituita dall’Italia intera. Il fuoco di quella lente sta a Napoli, dove la situazione è proprio inequivocabile, dove qualunque governo dovrebbe capire e confessare: non c’è niente da fare, stiamo qui a rubare i vostri soldi, stiamo qui ad occupare delle poltrone invano; e non c’è niente da fare in quanto l’elettorato siete voi, e proprio per questo siete responsabili.

Per concludere, che cosa c’è nel tuo futuro?

Oddio, il futuro… A marzo prossimo, per esempio, esce la mia opera omnia nei “Classici” Bompiani.

E che effetto ti fa essere collocato fra i classici?

Mi dispiace che sia tra i classici, perché non c’è la collana dei neoclassici e non c’è la collana dei barbarici. Ma io mi sento davvero morto, e non da oggi. E in questo senso tra i classici ci sto benissimo. Non mi sento eterno, ecco, mentre il classico ha l’arroganza dell’esserlo. Come Goethe, un vero e proprio assessore al classico.

Il Mattino, 11 novembre 1994

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