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Liegi Bastogne Liegi, la gara dei re ha il suo sire: Remco- di Teo Parini

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Una progressione sulla Redoute senza nemmeno dare fondo a tutto il gas in corpo e un piccolo richiamo poco più avanti hanno mandato in onda i titoli di coda di una corsa lunga e massacrante come forse solo la Liegi-Bastogne-Liegi sa essere.

Poco, infatti, è bastato a Remco Evenepoel per concedere il bis nella decana delle gare Monumento dopo la vittoria dello scorso anno. Cavalcata solitaria fu trecentosessantacinque giorni fa, cavalcata altrettanto solitaria è stata ieri, cromaticamente impreziosita dall’iride in bella mostra sulla divisa appositamente total white, per chi se lo ricorda, a mo’ di Mario Cipollini, il vero precursore nella cura del look nel mondo del ciclismo.

Una vittoria che, a causa del prematuro ritiro di Tadej Pogacar (a proposito, auguri di pronta guarigione), non è mai stata in discussione proprio perché, forse inconsciamente, le altre squadre davanti allo strapotere del belga hanno corso per la piazza d’onore. Anche una corazzata come la Ineos, che con il suo uomo di punta, Pidcock, si è preoccupata di blindare il secondo gradino del podio evitando un inutile e dispendioso tentativo di vittoria che avrebbe potuto comportare l’arrivo a Liegi con un pugno di mosche in mano. È il nuovo ciclismo dei cannibali, fatto di strategie (rivali) che prevedono l’impossibilità di successo e la glorifica dell’onorevole sconfitta. Attitudine che si era già intravista all’Amstel Gold Race e se ne è avuta la conferma in una Doyenne purtroppo appassionante come una replica. Sarà che da una settimana non si parlava che dell’imminente scontro tra titani Pogacar-Evenepoel su e giù per le côte più famose delle Ardenne e invece il destino ha voluto che il piatto forte fosse rinviato addirittura al Giro di Lombardia di fine stagione, ma è davvero difficile trovare motivi di interesse quando corridori fortissimi finiscono bullizzati da un extraterrestre che, con sette ore sulle spalle e cinquemila metri di dislivello, taglia il traguardo con l’espressione di chi si è appena regalato un pomeriggio alle terme.

Con la pioggia che ha fatto capolino sugli ultimi chilometri del percorso, Re Remco si è financo potuto permettere il lusso di prendere le curve a velocità cicloturistica scongiurando ogni possibile fonte di rischio, tanta era la differenza di performance tra lui e i primi dieci immediati inseguitori, impossibilitati a guadagnare terreno anche gettandosi pancia a terra sul percorso reso infido da Giove pluvio. Una disarmante manifestazione di superiorità, come già Pogacar al Fiandre o van der Poel tra Sanremo e Roubaix. Questi tre signori – con Vingegaard che al recente Giro dei Paesi Baschi ha giocato al gatto col topo con scalatori formidabili resi lumache dal confronto – fanno un altro sport. E se accade che al via se ne presenti uno solo, ecco che i bookmakers potrebbero tranquillamente togliere la quota di scommessa.

Tornando a Evenepoel, sbagliano per difetto quelli del “se ci fosse stato Pogacar” che provano a sminuire la portata del suo successo. Che lo sloveno potesse vincere, infatti, è evenienza tutta da dimostrare, perché Evenepoel ha trattato la corsa alla maniera tirannica dello stesso Pogacar e, per di più, su un tracciato che a essere pignoli gli è sensibilmente più congeniale. Uno che, non va dimenticato, nell’arco di un paio d’anni ha già messo in bacheca due Liegi, una Vuelta e un Mondiale. In ogni caso, con la corsa simbolo delle Ardenne si chiude la prima parte di stagione dedicata alle classiche in linea perché è già tempo di grandi giri. Remco ha scelto di dare l’assalto alla corsa rosa; Tadej, invece, non vede l’ora di prendersi la rivincita al Tour contro quel Vingegaard che l’ha freddato dodici mesi fa.

Dare un giudizio sul periodo storico che sta attraversando il ciclismo è questione complessa. Se da una parte c’è di che essere entusiasti per la presenza di campioni epocali artefici di un modo nuovo, ma pionieristico nella sua accezione spettacolare e arrembante, di interpretare la disciplina, e non è un ossimoro, dall’altra la disparità delle forze in gioco, che non è certo una colpa ma c’è, banalizza il lato emotivo. Del resto, i campioni, per definizione, sono coloro che fanno apparire semplici le situazioni più disagevoli e ieri, in tal senso, Evenepoel ha risolto un quesito intricatissimo in un amen mentre gli avversari, ancora adesso, sono alla ricerca della possibile soluzione. Si chiama tirannide, l’arbitrio di un fenomeno che prende il posto del diritto.

Giù il cappello.

di Teo Parini

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