Monaco di Baviera, Germania Ovest. L’Olympiastadion è teatro dell’atto finale degli Europei di calcio, si gioca di pomeriggio, altri tempi. Si contendono il titolo le compagini di Olanda, stellare, e URSS, che lo è quasi altrettanto. A rompere l’equilibrio del match ci pensa Ruud Gullit con una capocciata delle sue, maestose. Lo chiamavano Tulipano nero e la sua esuberanza atletica è qualcosa di abbacinante. Dopo mezzora di ostilità è quindi uno a zero per i ragazzi pilotati da quel diavolo di Michels.
Dei ventidue protagonisti di quel giorno, diversi giocano o finiranno per giocare in Italia, in un periodo nel quale il nostro campionato di serie A ancora è da considerare una spanna sopra la concorrenza e ciò dà perfettamente l’idea di quanto un trentennio mal gestito abbia ridisegnato le gerarchie globali del football. Minuto cinquantaquattro, uno spartiacque che sancisce un prima e un dopo assoluto.
Arnold Muhren, esperto centrocampista orange con licenza di crossare, dalla trequarti di sinistra scodella un pallone morbido carico di non troppe pretese. L’idea dietro al gesto è quella di cercare il palo più lontano per il taglio di un compagno ma la traiettoria risulta più lunga che interessante, una palla alta che scende lenta dal cielo. Però su quel fronte c’è Marco Van Basten che si aggira con i piedi che mulinano passi brevi alla velocità della luce alla ricerca della coordinazione perfetta. Allineati reciprocamente intuito, occhi, postura del corpo e piede destro, in prossimità dell’area piccola ma in posizione assai defilata, Marco impatta la volée che trafigge senza appello Dasaev – en passant, miglior portiere dell’epoca – riscrivendo di proprio pugno i teoremi della geometria euclidea. Gol, ma non ci crede nessuno. “Ero un po’ stanco, la cosa più facile mi era parsa quella di calciare al volo”, dirà qualche anno dopo. Facile, che in realtà è difficile il solo pensiero.
Ventitré anni, Van Basten viene da una stagione travagliata che lo ha visto più spesso in infermeria che sui playground ma ciò non gli ha impedito di siglare, giusto al rientro, la rete che è valsa al Milan sacchiano due terzi di scudetto. All’Empoli, un tracciante, per chi se lo ricorda. Quello che la storia celebrerà come il più forte attaccante del calcio a colori e che la sorte in collaborazione con i difensori irretiti di mezzo mondo metterà fuori gioco a neanche trenta primavere, a quell’Europeo ci arriva in sordina e invece finirà per esserne capocannoniere e stella polare. Un vizio che non avrebbe più perso.
Giocatore dalla tecnica sopraffina capace di condensare movenze da ballerino in quasi centonovanta centimetri di perfezione calcistica, Van Basten appartiene all’élite di coloro che, più che giocarlo, il calcio lo hanno sublimato. L’eccezionalità imperitura del personaggio, palesata a ogni pallone scagliato in rete, ha assunto però proporzioni extra calcistiche, eterne, in una sera di fine estate. Surreale.
31 agosto 1995, San Siro. Le caviglie malandate ormai da due anni gli impediscono di svolgere la professione per il quale gli dei dello sport lo hanno forgiato a loro immagine e somiglianza. Via via si sono arresi tutti davanti a un’inspiegabile evenienza: dottori, fisioterapisti, maghi e financo improbabili donatori di cartilagine, la sua kryptonite. C’è pertanto qualcosa di impossibile anche per chi proprio dell’impossibile – un gol in volo d’angelo nell’inferno del Bernabeu, per esempio – ne ha fatto un esercizio routinario. È la scienza che appone i propri paletti senza guardare in faccia a nessuno.
Marco si presenta alla Scala del calcio in borghese, indossa dei jeans, un giacca di renna sopra una camicia rosa. L’outfit conta poco ma dice molto, è davvero tutto finito. Il Cigno di Utrecht, con un palmares inelencabile per mole incastonato alle spalle, entra nel prato che più di ogni altro ne è stato casa e palcoscenico. Solleva le mani, abbozza forse un sorriso, cammina lento. Di sicuro gli scorrono nella mente i fotogrammi di ciò che è stato con l’orgoglio che non lo esenta dalla commozione. È pur sempre uomo. I presenti scorgono la sua sagoma inconfondibile già dall’uscita del tunnel e schizzano in piedi con naturale sincronismo, all’unisono, come diretti da un invisibile direttore d’orchestra. Hanno storie e provenienze diverse ma un’altra cosa li accomuna: piangono tutti. E per una volta tifosi spesso eccessivi riescono a non apparire fuori luogo.
Se è vero che lo sport come la vita, della quale è formidabile paradigma, sopravvive senza drammi all’alternanza naturale dei suoi illuminati protagonisti, è vero altresì che non è affatto scontato che chi farà seguito sarà all’altezza di chi lo ha preceduto. La realtà è che nel caso di Van Basten, come Tomba o Pantani, campioni che per desossiribonucleico lo sono un po’ più degli altri, ancora si sta aspettando al varco un papabile competitor. E mentre a calcio si continua ovviamente a giocare, è pertanto sul come che ci si trova in difetto, con buona pace di Messi o Ronaldo.
Marco, ovvero la grazia di Nureyev che flirta con il fucile di Sidorenko e il pennello di Van Gogh – un essere mitologico chiamato Completezza – spegne oggi, da papà, allenatore e golfista provetto, 55 candeline. Passa il tempo. Leggenda vuole che la caviglia fragile e subdola che ne ha dettato i tempi della carriera fosse affetta da un difetto congenito, come parte di un copione già scritto, bello e maledetto. È proprio vero, la perfezione non esiste.
Tanti auguri, Marco.
Teo Parini