La victoria ‘roja’ di Sepp Kuss- di Teo Parini

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Sepp Kuss non si tocca. L’edizione 2023 della Vuelta è tutta sua e per il popolo più romantico del ciclismo è una notizia meravigliosa. La squadra gli aveva chiesto qualcosa di mai visto prima, scortare in salita il capitano designato di tutti e tre i Grandi Giri che, tradotto, significa sessanta giorni di corsa tra metà maggio e metà settembre, roba da Superman. Sepp non è uno che si tira indietro, anzi, e dopo aver contribuito in maniera decisiva alla vittoria di Roglic al Giro e di Vingegaard al Tour si apprestava a fare lo stesso anche sulle strade tortuose della Vuelta, senza riserve. È pagato per questo, essere il più forte gregario del mondo quando la strada sale. Ma la sorte per una volta ha deciso diversamente.

Infilatosi per esigenze tattiche in quella che diventerà la più classica delle fughe bidone, Kuss vince una tappa in solitudine e, qualche ora più tardi, indossa pure la maglia rossa del primato con un bel gruzzolo di minuti di vantaggio sui capitani piuttosto imbronciati e sul lotto dei più accreditati rivali. Per la Jumbo-Visma è un problema non di poco conto. Non basta dover gestire la scomoda compresenza di Roglic e Vingegaard, due che non accetterebbero di perdere manco a rubamazzetto, ci manca pure il terzo incomodo a complicare oltremodo le strategie di corsa. Come comportarsi, devono essersi chiesti i responsabili del team, prima di inanellare una serie di pasticci che hanno fatto scempio di questa Vuelta e della loro immagine di squadra di riferimento mondiale. Per carità, nulla di nuovo, per esempio per chi ricorda gli arrivi in parata preconfezionata in casa Mapei di qualche lustro fa sulle strade fiamminghe e vallone, ma l’andazzo di questa edizione della corsa spagnola si presta a più di una considerazione.

Con Kuss in maglia rossa, per non infilarsi nel cul de sac dove invece si è incagliato, il team avrebbe dovuto prendere immediatamente una decisione. Reputando Kuss affidabile, tutti per Kuss, senza preoccuparsi dei mal di pancia dei non più capitani. Viceversa, reputando Kuss non affidabile, ignorare il simbolo del primato sulle spalle sbagliate e, pertanto, tutti per i capitani, americano incluso e di nuovo gregario. L’indecisione o, peggio, l’idea di poter salvare capra e cavoli tenendo il piede in tre scarpe, manco due, ha condotto alla serie di figuracce, coperte ogni volta da pezze peggiori del buco stesso. Così, abbiamo assistito a uomini Jumbo-Visma attaccarsi frontalmente prima di esibire sul traguardo imbarazzanti e imbarazzate dichiarazioni di facciata, alternati da improvvisati ordini di scuderia impartiti in corsa a mezzo radio che hanno incontrato il malcontento dei destinatari, i quali nulla hanno fatto per mimetizzare la sgradevole sensazione, tra eloquenti mimiche facciali di sdegno e comportamenti infantili. Il tutto con la vittoria della Vuelta in mano, considerato che il più accreditato degli avversari navigava a distanza siderale dai tre calabroni.

Una figura barbina.
Vero è che nel bonipertiano concetto di agone il risultato epocale di squadra – tre grandi giri e tre vittorie con tre uomini diversi nella stessa stagione – è stato portato a casa, quindi bravi loro, ma ci si potrebbe domandare a quale prezzo pagato in termini di credibilità in un contesto, quello del ciclismo, che da questa Vuelta ne esce a pezzi, imbrigliata per giorni e giorni dalle decisioni spesso contrastanti tra loro della squadra più forte al mondo, intenta a capire da che parte voltarsi e nell’esigenza della botte piena e della moglie ubriaca. La pochezza dei competitor, poi, ha fatto il resto: una noia mortale. Non è certo colpa di Kuss e soci se i vari Ayuso, Landa e Mas non hanno mai dato l’impressione di poter mettere in discussione il podio giallo-nero, ma, giornata dell’Angliru a parte, si fatica terribilmente a trovare qualcosa da tramandare ai posteri in quanto a pathos.
Già, l’Angliru. Quella della scalata del Mostro è stata probabilmente la giornata che ha sancito moralmente il diritto di Sepp Kuss di pretendere questa bizzarra Vuelta. La strenua difesa sulle rampe più arcigne dalla progressione del compagno-avversario Roglic seguito da Vingegaard a caccia della vetta della classifica, che gli è valsa la conferma della maglia del primato per una mancata di secondi, assurge a istantanea simbolo di una corsa il cui albo d’oro è insindacabilmente impreziosito dal nome di un ragazzo talentuoso, umile e generoso. Che non sarà stato il più forte del lotto, anche se la controprova non l’avremo mai, ma ha dimostrato ai sempre troppi scettici nei suoi confronti che, oltre al gregariato di lusso, ha certificata dai cromosomi la possibilità di affrontare una corsa di tre settimane col piglio del papabile vincitore. Chapeau, quindi.

Quella di Kuss, al di là di tutto, è comunque una bella storia. Una storia che ha il pregio di farci credere, anche solo per un istante, che a dare di noi la migliore versione possibile si finisca sempre per essere ripagati dal destino. Se poi, come nel caso dello scalatore venuto dalle Montagne Rocciose, la vita la si affronta sempre con il sorriso, l’insegnamento è servito unitamente alla conferma del ruolo educativo dello sport. Complimenti Sepp. Sempre a testa alta, perché non hai rubato nulla e il rosso ti dona moltissimo.

di Teo Parini

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