Il 3 settembre 2016 si suicidò il dottor Alberto Flores D’Arcais, pediatra dell’ospedale di Legnano, che fu accusato di atti sessuali con minorenni
Verso le sette di mattina di sabato 3 settembre 2016 il professor Alberto Flores D’Arcais, sessantuno anni, sposato e con due figlie, primario di Pediatria all’ospedale di Legnano, medico e docente universalmente stimato, ha aperto la finestra della sua casa al sesto piano di via Belgirate a Milano, dove era agli arresti domiciliari, e si è buttato nel vuoto lasciando sul tavolo alcune lettere a famigliari e amici.
Ha deciso di chiudere così, senza attendere nemmeno un rinvio a giudizio, il caso che lo vedeva coinvolto e per il quale, comunque fosse andata, era già stato condannato da quel dispositivo infernale che chiamiamo circo mediatico-giudiziario. Il “processo” era già stato fatto in fretta, sui giornali distratti dell’estate, e il pubblico su queste storie ci si butta a pesce, con l’istinto assassino del piranha. Dove c’è pediatria c’è pedofilia, sembra annusarlo. Del resto, in questa stessa estate, non avevano arrestato anche un pediatra del San Matteo di Pavia, Antonio Maria Ricci, cinquant’anni, con l’accusa di violenza ai danni di una paziente di tredici anni, che avrebbe “adescato” tramite Facebook e poi “baciata” durante una visita al day hospital? Il condizionamento mediatico e culturale in tema di abusi sui bambini è tale che chiunque si occupi di bamini è considerato potenzialmente un mostro. Nei giorni scorsi il comune di Milano ha stabilito che dovranno essere installate telecamere obbligatorie in tutti gli asili nido che intendano essere accreditati. Non si sa mai.
Secondo le accuse formulate dal pm di Busto Arsizio Francesca Gentilini, il primario della Pediatria di Legnano era sospettato di “atti sessuali con minorenni” in 18 episodi di presunti abusi avvenuti nel corso di visite in ospedale. Alberto Flores D’Arcais era un medico stimato, per vent’anni pediatra e docente universitario al San Raffaele, dal 2006 era primario di Pediatria a Legnano. Aveva partecipato a missioni umanitarie in Iraq.
La prima cosa inusuale di questa storia è che gli esposti sui presuntissimi abusi da cui partono nel 2015 le indagini non sono fatti da genitori, né in base a “racconti” dei bambini (do you remember Rignano?), ma da uno dei pediatri di base (o meglio di “libera professione”) di Legnano con cui Flores D’Arcais aveva avuto battibecchi pubblici, criticando apertamente i metodi e la qualità del lavoro. Una vendetta privata? Sono gli stessi giornali locali a parlare di “uno scenario fatto di livore, risentimenti e ostilità, raccontato dagli stessi dottori e infermieri” da cui sarebbero nate quelle denunce. Sta di fatto che la giustizia fa il suo corso e le accuse bastano a far scattare le indagini, che contemplano anche registrazioni video delle visite in ospedale, durate sei mesi. Il 9 luglio il medico viene arrestato, ai domiciliari. Ma la notizia ci mette fino a giovedì 14 a trapelare. Secondo i magistrati, sarebbe il segno di una meritoria volontà di riservatezza su un caso tanto grave. Tutto lineare.
C’è un ma. Che cosa faceva, nelle sue visite, il dottore dei bambini? Su quei filmati, c’è una memoria tecnica difensiva redatta da un perito di parte, il prof. Gianni Bona, ordinario di Pediatria dell’Università del Piemonte orientale: “Sulla base degli atti e delle videoregistrazioni, mi sento di concludere che l’operato del prof. Flores D’Arcais sia deontologicamente in linea con quelle che sono le normali regole in essere in campo pediatrico per una adeguata valutazione di giovani pazienti (…) e non riscontro alcun atteggiamento che travalichi le normali procedure”. Spiega il luminare che è “bene che la visita non si limiti ai soli sintomi od organi interessati dalla patologia” (la denuncia – che sarebbe poi anche la “prova” – riguarda il fatto che le visite erano “lunghe”) e che “la prima fase della visita, come ci hanno insegnato grandi Maestri della pediatria, è rappresentata proprio dal far spogliare il paziente e in particolare quei pazienti che hanno un’età compresa fra gli 8 e i 14 anni”. Appare “pertanto doveroso”, scrive Bono, effettuare anche un controllo “in particolare dello sviluppo dei caratteri sessuali secondari rappresentati dalla crescita della ghiandola mammaria, che va osservata ma anche palpata, dallo sviluppo del pelo pubico e dalla normale conformazione dei genitali esterni, escludendo la presenza di alterazioni”. In sostanza, secondo il professore, sarebbero visite da mostrare agli studenti all’università: “Le immagini che si possono osservare consentono di affermare senza alcun dubbio che nella totalità dei casi si tratta di normali visite condotte in maniera standardizzata ed effettuate tutte in presenza di almeno un genitore”.
Ce n’era abbastanza per archiviare accuse tanto generiche su abusi mai sospettati nemmeno dai diretti interessati? O almeno per revocare i domiciliari, come avevano chiesto i suoi legali e il medico curante di Flores D’Arcais – nonché amico oggi addoloratissimo e incredulo – “per quelle accuse assurde e infamanti”? Il dottor Alberto Aronica in agosto aveva segnalato una grave sindrome suicidaria nel detenuto. Il gip di Busto Arsizio non aveva revocato. A nessuno è venuto in mente che lasciare un uomo con sindrome suicidaria ai domiciliari al sesto piano potesse essere un azzardo. Fatalità. Anche a fronte della perizia di un cattedratico, pesava di più il sospetto dell’accusa. Così Flores D’Arcais si è buttato. “Alberto aveva perso tutto, aveva perso ogni speranza. Sapeva di essere finito come medico, sia in caso di condanna sia di assoluzione”, ha detto il suo medico amico. Una sentenza mediatica già formulata.
Ma c’è anche un altro ma. La mattina stessa del suicidio, “a cadavere ancora caldo” ha scritto qualche giornale, il procuratore capo di Busto, Gianluigi Fontana, convoca non una conferenza stampa, ma un irrituale briefing informale con alcuni giornalisti in via Moscova a Milano, alle ore 11. E annuncia il ritrovamento su due computer del medico, che erano stati sequestrati e analizzati da esperti, di materiale pedopornografico, migliaia di foto. Come dire: vedete? Lui si è suicidato, ma noi avevamo ragione. “Abbiamo trovato nel suo computer cinquemila foto pedopornografiche… cose pesanti con bambine”, dice ai giornalisti.
L’equazione è fatta: se l’indagato guardava queste cose a casa sua, ovviamente lo faceva pure in ospedale. Si è suicidato perché era colpevole. La spiegazione è più o meno questa: i periti hanno finito il lavoro (solo il procuratore ha però visto i contenuti dei computer), tramite il suo legale D’Arcais ne è stato informato. E si è suicidato. Prima che, il lunedì successivo, Busto Arsizio potesse trasmettere il fascicolo alla procura di Milano, perché per questo genere di reati la competenza è della procura distrettuale. Visto? Tutto in regola.
Peccato che l’avvocato dell’indagato-vittima abbia dichiarato di non essere stato informato (almeno non prima della stampa) e che per quello che ne sapeva, al momento del suicidio, non erano emersi “elementi aggravanti”. Si fa peccato a pensare che più del segreto istruttorio, in quello strano briefing mattutino, ha pesato la volontà di mettersi al riparo da eventuali polemiche di fronte al suicidio di un inquisito? La famiglia ha affidato il suo sdegno a una lettera al Corriere della Sera, “per togliere il fango versato sulla sua figura”: “Siamo sconcertati per il comportamento della procura di Busto Arsizio che quando ancora nessuno della famiglia era stato informato, ha sentito il bisogno di indire una conferenza stampa divulgando notizie che avrebbero dovuto essere segrete, impedendo di fatto qualsiasi forma di difesa, e gettando altro fango sulla reputazione di Alberto, quando ancora era disteso sull’asfalto privo di vita”.
Ma a Flores D’Arcais nessuno ha dato il tempo di difendersi. La questione dei fascicoli della procura non è secondaria, a rifletterci. Né dal punto di vista di come è stata condotta l’inchiesta, né da un punto di vista, diciamo così, culturale. Un’accusa tanto pesante ma circostanziata (“visite pediatriche svolte adottando un comportamento contrario a quello della professione medica e finalizzate, invece, ad atti di natura sessuale”) può trovare una quasi-conferma, ex post, attraverso una sorta di “induzione morale” da un comportamento privato (che casomai configurerebbe un altro tipo di reato) a uno professionale-deontologico? In altre parole, avere materiale di un certo tipo a casa significa essere colpevoli nell’esercizio delle proprie funzioni? Per il procuratore Fontana le immagini sul pc, che nessuno tranne lui ha mai visto né vedrà mai (secondo alcuni medici, però, potrebbero persino essere materiale scientifico e per uso scientifico: i pediatri si debbono spesso occupare anche di queste cose) sono la prova provata: sono state trovate “dov’era ovvio che fossero, cioè nei pc privati che il medico teneva a casa. Nei computer dell’ospedale non c’era nulla”. Un sillogismo simile non può essere accettato a cuor leggero: sembra, è, piuttosto il frutto di un corto circuito di tipo morale, collegato a un pregiudizio che rende colpevoli a prescindere e non dà la possibilità di salvarsi. “Flores D’Arcais è stato la vittima innocente di un’accusa assolutamente falsa, una cattiveria nata dalla segnalazione di pediatri di base”, ha detto il suo medico-amico. Non ha potuto difendersi da una denuncia di sospetto morale che richiama sinistramente alla memoria un passato cupo (ma molto attuale), quello delle lettere di denuncia anonima studiate da Michel Foucault, che nell’Ancien régime servivano per denunciare al Re “le variazioni individuali della condotta, le vergogne e i segreti” dei propri nemici, affinché la giustizia facesse il suo corso. E una presunta (o reale) perversione sessuale servisse a far interdire in prigione un rivale in affari. Nel circo mediatico-giudiziario Flores D’Arcais è stato condannato senza processo, come per un’autoevidenza, in base a un comportamento (presunto). Ora, probabilmente, il tutto sarà archiviato. Per decesso dell’accusato. Probabilmente anche il fascicolo mai aperto e mai pervenuto alla procura competente, ma ai media sì sulle fotografie. Nessuno saprà mai la verità su un caso di giustizia già applicata. Resta che Alberto Flores D’Arcais a questa giustizia sommaria si è ribellato, o arreso, nel modo più estremo. Archiviato.
Maurizio Crippa (Il Foglio)