La Procura indaga e accusa, un Giudice terzo condanna o assolve: lezione per gli ignoranti abbiatensi del Diritto- di Fabrizio Provera

Si continua a straparlare di Procura, ad Abbiategrasso, ignorando i pilastri e le basi del sistema giurisprudenziale

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“La Procura della Repubblica è l’ufficio giudiziario che si occupa di indagare sui fatti che, almeno in apparenza, presentano i connotati del reato. In termini più semplici, possiamo dire che la Procura della Repubblica è la struttura ove hanno sede gli uffici del pubblico ministero (pm), il magistrato che svolge le indagini ed esercita l’azione penale. A capo degli uffici della Procura ci sono i procuratori della Repubblica, cioè i magistrati che si occupano di promuovere e dirigere le indagini e, quando il processo penale è cominciato, di rivestire il ruolo di pubblico ministero. Il procuratore della Repubblica, dunque, è titolare di un ufficio della Procura della Repubblica e, di conseguenza, svolge tutte le funzioni classiche della pubblica accusa”.

“La funzione giudicante è la funzione svolta dai giudici a cui è attribuito il compito di decidere le controversie o di pronunciarsi sugli affari di loro competenza. Insomma: mentre il pm deve indagare, il giudice deve decidere. Questa è, in buona sostanza, anche la differenza tra Procura e Tribunale. Procura e Tribunale: che differenza c’è? La differenza tra funzione inquirente del pm e funzione giudicante del giudice è la stessa che c’è tra Procura della Repubblica e Tribunale: mentre la Procura è la sede del pubblico ministero e, quindi, luogo deputato a conservare le indagini svolte e ad accogliere gli uomini che lavorano alle dipendenze del pm, il Tribunale è il luogo in cui si celebrano le udienze nel contraddittorio tra le parti, davanti a un giudice terzo e imparziale. Insomma: mentre la Procura della Repubblica è la “casa” del pubblico ministero, il Tribunale è il luogo (normalmente accessibile a tutti) ove la giustizia si svolge e giunge a termine grazie alle decisioni dei giudici”.

Quanta ignoranza giuridica, ad Abbiategrasso. Da molte parti. Da prima della puntata di Report (che, di suo, non è certamente la casa del garantismo..). Sulla vicenda Hydra, su chi parla ma soprattutto straparla di mafia in città, dilaga una crassa ignoranza. Spesso malcelata. Il settimanale Ordine e Libertà dedica due pagine alle risposte di partiti e gruppi consiliari a due domande nelle quali, ovviamente, campeggia lei: la Procura. Anche uno scolaro medio, leggendo le chiarissime descrizioni suespote, capisce tuttavia che le Procure accusano ma NON giudicano. Il giudizio spetta ad altri. Epperò, delle decine e decine di pagine dell’ordinanza con cui il Gip di Milano Italo Perna ha dedicato al caso Abbiategrasso, abbiamo letto poco o nulla. Abbiamo letto di Errante Parrino, decine di volte. Ma NON di come NON sia stata ravvisata dal Giudice alcuna azione penalmente rilevante riconducibile a gruppi o consorzi. Per la seconda volta, allora, pubblichiamo noi un virgolettato chiarissimo (persino a chi è in possesso di licenza media) del Gip Perna sul caso Abbiategrasso: “Non è stato individuato alcun atto di intimidazione posto in essere da parte degli odierni indagati nello svolgimento delle più svariate attività economiche ad essi riconducibili». Una circostanza che «desta ancor più stupore se si considera che, nell’ottica accusatoria, il sodalizio di tipo confederativo ipotizzato ha dovuto necessariamente occupare tutti gli spazi della vita politica ed economica della provincia milanese. Affinché si possa parlare di associazione mafiosa è indispensabile la prova in positivo «della concreta estrinsecazione della capacità intimidatoria”. Basterà? Ne abbiamo forti dubbi. L’ignorante giuridico collettivo fa confusione da decenni. Per una ragione espressa con chiarezza da Iuri Maria Prado, liberale coraggioso, in un illuminante articolo risalente al 2020. Vediamo se aggiungendo anche questo ci sarà qualcuno (in più) in grado di capire. Chissà. La speranza è l’ultima a morire.

Fabrizio Provera

“Forse è tempo di rivedere almeno in parte il ragionamento di denuncia che pur giustamente si è fatto sul rapporto perverso tra magistratura militante e giornalismo ad essa associato: e di precisare che non si è trattato di connubio, ma di filiazione.

L’intimidazione giudiziaria, l’abuso inquirente, lo strapotere del contro-governo delle Procure della Repubblica, erano, e rimangono, meno fenomeni originari che creature della legittimazione giornalistica. E non nel senso che non ci fossero già prima della trasformazione dei giornali e delle televisioni in una perenne ribalta Toga Pride, ma nel senso che senza quell’accreditamento mediatico sarebbero rimasti al rango di una comune malversazione.

Trent’anni dopo, la requisitoria contro l’innocente qualificato «cinico mercante di morte» sarebbe stata reiterata dal palcoscenico quotidianamente offerto dal giornalismo procuratorio agli influencer della magistratura combattente, quelli che non ascolterebbe nessuno se dicessero al bar, o in famiglia, o alla scorta, che gli assolti sono colpevoli che l’hanno fatta franca o che un po’ di galera per gli innocenti è dopotutto fisiologica: ma lo dicono in televisione, o sui giornali che senza perplessità incassano e rilanciano quegli spropositi.

Si potrebbe obiettare che chi arresta è infine il magistrato, non il giornalista che gli regge il microfono e ne canta le gesta. Ma l’errore è proprio in questa obiezione: perché la vera pericolosità dell’arbitrio, della violenza del potere, dell’abuso, non sta nel fatto che siano commessi ma nella circostanza che siano legittimati. E l’illegalità giudiziaria non si legittima da sola, ma nel battesimo giornalistico”.

Iuri Maria Prado

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