Alle cinque della sera, spinto da curiositร , ricordi e amore della tradizione, sono andato a vedere la corrida nella plaza de toros monumental di Barcellona. Avevo ancora negli occhi la memoria mitica di una corrida vista da ragazzo e allora mi parve di assistere ad un rito antico e crudele ma autentico, partecipato e appassionato, intriso di simboli e liturgie. Rito di morte ma anche di vita e di virilitร , rito di sangue ma anche di luce, in cui era vestita a fiesta la tragedia del vivere in una foresta di atti epici, erotici e picareschi che davano luogo ad una vera drammaturgia collettiva, che coinvolgeva gli spalti trasformandoli in coro. Avevo poi nella mente le letture di Hemingway e di Jean Cau, di Leiris, di Ortega y Gasset e di tanti tradizionalisti spagnoli che celebravano nella corrida un sacrificio rituale, un torneo metafisico tra la luce e lโoscuritร . Avevo condiviso con loro la difesa della corrida per il suo significato eroico e tradizionale, dagli animalisti e da coloro che credono di eludere la morte sopprimendo le cerimonie sacrificali.
Con questo spirito, congiunto alla curiositร di vedere oggi, proprio in Catalogna, dove fervono le polemiche sulle corride e il governo regionale catalano le ha deplorate pur senza vietarle, che ne รจ della corrida. Credevo di imbattermi nelle immagini di Goya, Andrรจ Masson e Picasso, nei pensieri di de Maetzu e Unamuno, nelle poesie di Garcia Lorca e Machado, gustando โla musica silenziosa del toreareโ su cui ha scritto Josรจ Bergamin e ha poetato Rafael Alberti. Ho trovato spalti vuotati e molti dei pochi presenti erano turisti svagati, vittime del pacchetto folclore โtutto compresoโ, portati sul posto dalla globalizzazione piรน che dalla tradizione. Eโ solo turismo, o se preferite, taurismo, ma non tauromachia. Lโorchestra che โamenizaโ lo spettacolo, sottolineava inutilmente le tediose ripetizioni della corrida, con unโenfasi pomposa e gratuita. Pacchiani parevano pure il torero e i picadores, quasi grotteschi nei loro abiti non condivisi dal genius loci e dal clima circostante. Si รจ ripetuta per sei volte con un filo di macabra noia la mattanza dei tori.
Una parabola risaputa e ripetuta: dalle gagliarde sfuriate iniziali allโattacco contro i cavalli bardati e protetti, biasimato dalla folla, alle veroniche compiute con la muleta, e poi le prime sanguinose trafitture delle banderillas con i colori di Spagna, fino alla stoccata mortale con la spada. Prima una macchia rossa sul dorso, poi fiotti di sangue dalla bocca. Tremenda รจ lโagonia del toro e vederne poi altre cinque non la rende piรน mite e accettata, come una pratica dura ma prevedibile da evadere; semmai lโha resa piรน cupa, nella sua atroce irreversibilitร , nella sua prevista crudeltร che appariva sempre piรน disadorna di rito e di olรจ, disabitata dal sacro e pure dalla profana passione degli uomini. Quando comincia a perdere il senso dellโorientamento e si guarda attorno, il toro diventa un agnello sacrificale, e il suo sguardo vagante in un arcano altrove ha tratti teneramente umani, troppo umani. Lo vedi ferito e frastornato, che si volge ormai incerto ed estraneo ora allโuno ora allโaltro picador, in attesa che il torero dia il colpo di grazia. Accenna a muoversi, poi si ferma mentre sente colare il suo sangue. Ha smesso di lottare, teme la fine ma in fondo la cerca; poi smette di volere, e appare concentrato sulla sua agonia, si abbandona allo stocco, mentre lโarena gira intorno come un sogno, si capovolge il sopra e il sotto, il vicino e il distante, svanisce il mondo, cosรฌ i rumori e lo sguardo fissa il nulla colorato delle cose. Gira intorno, vacilla in un ultimo accenno di maestositร , infine cade. Il passaggio da vivente a cosa รจ compiuto.
ร terribile assistere a quegli istanti e rivederli per ben sei volte, con una puntualitร di tempi che evoca in versione taurina la banalitร del male. Chi obbietta che avrei potuto andar via dopo la prima mattanza dice una ipocrita idiozia perchรฉ i tori non avrebbero smesso di morire e io avrei smesso di capire e di raccontare. La sequenza taurina รจ una catena di smontaggio con carro funebre finale trainato da due cavalli, sulle note di una marcia funebre che sembra la sigla di chiusura di un teatrino dei pupi. Il toro trascinato per la plaza assume le sembianze di un enorme scarafaggio. Ho visto negli occhi della gente raccapriccio o indifferenza, come se assistessero ad un video-game. Ed ho sentito in alcuni serpeggiare il tifo in favore del toro: metร per ragion cinica, per rendere piรน vivace lo spettacolo e ben speso il biglietto un poโ caro; metร per solidarietร con il perdente, per ribellarsi al destino prestabilito della sua morte. Ed anche quel nascosto tifo per la vittoria del toro, che mi sono sorpreso talvolta a condividere, mi faceva capire che in quellโarena eravamo come al Colosseo al tempo dei cristiani e dei leoni. Non contava che fossero uomini, come noi; erano figuranti dello spettacolo, erano pedine del gioco. La loro umanitร non contava e prive dโanima parevano quelle vesti sfarzose. Non sembravano hidalgos ma prodi marionette. Anche un rito antico, che un tempo segnava la civiltร e lโeleganza, puรฒ diventare un atto barbaro quando nulla piรน lo giustifica, fuori che lo spettacolo e il business. Uscii dalla plaza de toros al tramonto e mi restรฒ negli occhi il tramonto di una passione. Quando รจ cosรฌ, meglio spegnere le tradizioni piuttosto che tenerle in vita artificialmente, con le trasfusioni di sangue di una povera bestia costretta a pagare con la vita chi aveva pagato per la vista. Il toro nellโarena, simbolo dei vinti, la loro lotta vana, la loro sorte certa.
Marcello Veneziani- I Vinti, 2004