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Dall'archivio:

Jackie, la rutilante magia di una diva contemporanea in un bellissimo film

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Dalla nostra inviata al cinema

La magia della sala buia di un cinema ha la capacità di trasportarci, anche fisicamente, all’interno di una storia, di una vicenda, di una narrazione. Ho deciso di trascorrere alcune ore di questo splendido pomeriggio di sole immersa in una rappresentazione tanto intima quanto intensa. Ha attratto la mia attenzione l’esordio hollywoodiano del regista cileno Pablo Larrain che ha diretto la bravissima Natalie Portman in ‘Jackie’, candidato a tre premi oscar, ma non premiato dall’ Academy.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mito della famiglia Kennedy ha sempre suscitato in me grande interesse e sono felice che ci si sia voluti soffermare su qualcosa che andasse oltre al concetto che rese la signora Kennedy un’icona immortale del buon gusto e dell’eleganza. Le critiche dell’epoca dissero che Jackie concesse agli Stati Uniti una caratteristica che sino ad ora non li aveva rappresentati : la regalità. In questo spaccato viene descritto quel brevissimo periodo che intercorse tra la morte del Presidente ed i suoi suntuosi funerali. La giovane First Lady, sconvolta dal drammatico omicidio del marito, dovette affrontare il proprio dolore personale ma anche guidare una Nazione in un pubblico momento di lutto. E Jackie decise di commemorare la carriera politica di JFK organizzando le esequie che reputava fossero degne del ruolo del marito. La sua paura più grande era quella che Jack (come veniva chiamato in famiglia) fosse dimenticato; sull’ambulanza di ritorno dall’ospedale dove era stata eseguita l’autopsia, si rivolse all’autista ed alle infermiere menzionando due predecessori del marito, morti improvvisamente, ed il fatto che loro non li ricordassero, la sconvolse.

Nonostante il pericolo reale di un altro attentato, impose un lungo corteo funebre, con i Capi di Stato e le personalità giunte a rendergli l’ultimo omaggio. Nonostante la contrarietà del fratello Bob, del neo presidente Lindon Johnson. Ed in questo ritratto psicologico così intenso, si possono scorgere le contraddizioni e le fragilità di una giovane donna. Il regista per agevolare la narrazione, oltre ad avvalersi di molti flashback, utilizza l’espediente letterario di un’intervista che Jackie rilasciò, per rendere noto il proprio punto di vista. Chiaramente concedendosi molti momenti di fragilità e  sconforto che impedirà al giornalista di pubblicare. Netta è la spaccatura tra la propria immagine e quella pubblica, che la First Lady vuole mantenere, non permetterà neppure all’intervistatore di citare il fatto che lei fumi, nonostante lo abbia fatto di continuo.

 

Alle domande incalzanti sulla rettitudine del marito, lei risponderà :” le persone perfette non possono cambiare”. Ma la visione è un continuo intersecarsi di momenti intimi, decisioni ardue da prendere, interesse pubblico e privato. Alla domanda ‘perché si comporta così signora’, risponderà dicendo :” sto solo facendo il mio lavoro”. La sua missione in quel momento era quella di celebrare la grandezza del marito, renderlo un’icona per i posteri, valorizzare il suo prestigio, e credo che ci sia riuscita.

 

Il celebre tailleur rosa di Chanel ( o forse solo ispirato a Chanel, gli storici si dibattono ancora) con il cappellino abbinato, tanto immacolato prima quanto drammaticamente intriso del sangue del presidente, poi, è un’immagine indelebile nelle nostre menti. Tanto quanto i cappottini azzurri dei figli Caroline e John, ritratti per mano alla madre, dietro il feretro di JFK. Le confessioni ad un sacerdote dipingono la first lady attraverso le i suoi dubbi e le sue paure. Mentre Bob si interroga sull’eredità politica del fratello, Jackie ne celebra la grandezza. Lasciandola ai posteri, per sempre. Poichè riteneva che i personaggi di cui leggiamo siano più reali dell’uomo che abbiamo accanto. Creando per un istante la Camelot su cui tanto avevano sognato, insieme.

Emanuela Arcidiacono

 

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