Italrugby, i galletti francesi sono troppo forti: che imbarcata..

Il commento post partita di Teo Parini

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Partita difficilissima da interpretare, perché da ogni angolazione la si osservi ne esce un quadro differente. A basarsi sullo score, in realtà, ci sarebbe ben poco da commentare: undici mete a tre, a questi livelli di eccellenza, è ciò che si dice una mattanza. Dopo un avvio coraggioso, incoraggiante e pure un po’ sfortunato, su Roma si è abbattuta la marea dei Blues e per sull’Italia la notte è calata anzitempo. Tuttavia, limitarsi a guardare il tabellone è roba da imbucati nel salotto del rugby e, allora, per prima cosa c’è da dire che l’Italia ha incontrato la Francia che, per le nostre intrinseche caratteristiche strutturali, è ciò che di peggio possa accadere.

I cugini, quelli del rugby color Champagne, uniscono fantasia, velocità di pensiero, competenza rugbistica e pure chili nei raggruppamenti, ed il mix di tutto ciò significa la possibilità di sfruttare il motore di una Ferrari con la corazza di un tank. Orchestra ipersonica, la loro, che viaggia alla velocità del suono e la cui musica è decisamente più rock che classica. Solo una, pertanto, la strategia utile per tentare di arginare una simile macchina da guerra. Rallentare con ogni mezzo lecito il gioco, addormentare la partita, farne una battaglia casa per casa. Nel fango, possibilmente. Lo sanno bene gli inglesi, mica i georgiani, che nell’ultimo match hanno sorpreso i transalpini al termine di una partita giocata più per depotenziare l’avversario che per far emergere le proprie virtù. Winning ugly – per dirlo alla Brad Gilbert, il noto guru tennistico – al punto da levare ai francesi, minuto dopo minuto, ogni certezza, fino all’incepparsi di un meccanismo sulla carta perfetto.

Noi, purtroppo, non siamo l’Inghilterra, la coperta è troppo corta per imbastire quel tipo di match in trincea ed assurgere a granello di sabbia nel meccanismo e, allora, Quesada deve aver pensato che tanto valesse giocare a testa alta, provando a rispondere colpo su colpo in campo aperto. Velocità e ribaltamento di fronti, forti della serenità conseguita grazie alla risicata vittoria contro il Galles comunque allo sbando di due settimane fa. La scelta, a metà tra lo spettacolare coraggio e l’incoscienza, ha avuto due esiti antitetici, racchiusi in un solo match. Proviamo a separare.

Il primo, quello positivo, è per noi di aver saputo riproporre scampoli del gioco alla mano arioso e frizzante già esibito durante la gestione Crowley e, in parte, nello scorso Sei Nazioni. La relativa facilità di creare occasioni di attacco. Gioco che nei primi due incontri di questo torneo è letteralmente sparito dai radar, tutto appannaggio di un mood sparagnino e utilitaristico che ci ha consentito di evitare l’imbarcata in Scozia e, appunto, di infilzare i derelitti dragoni gallesi, marcando due sole mete in due match. Ieri, chi lo nega è in malafede, le trame offensive azzurre hanno prodotto situazioni financo entusiasmanti, tradotte da tre marcature di una certa fattura ed una quarta (che avrebbe significato il punto di bonus offensivo, specialmente quella di Gesi) sfiorata a più riprese. Una meta in prima fase, come quella meravigliosa finalizzata da Menoncello, inoltre, è qualcosa che i francesi non concedono mai troppo volentieri, perché sintomatica di amnesie difensive indotte anche dalla bravura degli avversari e in termini di bilancio significa molto per gli azzurri.

Il secondo, quello negativo, è stato il palesarsi della differenza abissale di cilindrata che ci separa ancora oggi dalla Francia. Francia che, va detto, può esibire un movimento in patria che consta di tesserati e, soprattutto, di euro che noi ci possiamo scordare. Il mismatch, in soldoni, per l’intelligenza artificiale è di quelli persi in partenza. Provando noi a fare la Francia, infatti, con quest’ultima messa nelle condizioni ottimali per sprigionare tutti i suoi cavalli, alla lunga ci ha sbattuto sul muso la differenza mortificante di lignaggio che ci separa. Con il match, un assolo transalpino in versione Playstation, che ha finito per farci sembrare ancor meno competenti di quanto realmente possiamo vantare con cognizione di causa. Insomma, per indossare noi l’abito della festa, abbiamo consentito ai cugini di tirare fuori dall’armadio il frac lavato e stirato. Risultato, cinquanta punti di scarto in un tabellone, ahinoi, quasi cestistico.

Fa sorridere l’idea di scomodare l’arbitraggio con un divario simile, ma almeno una meta attribuita ai francesi in situazione di equilibrio (o quasi) grida vendetta, ma siamo tutti gente di rugby e accettiamo con dignità l’ennesimo pagamento di pedaggio alla legge del più forte. Ma tant’è. Tornando alla partita ed alle sue istantanee meravigliose, ieri in campo s’è visto un marziano. DuPont, infatti, non gioca a rugby, lo insegna, ed averlo ammirato da vicino è davvero una fortuna sfacciata. Teoricamente, il francese sarebbe il mediano di mischia della squadra ma Antoine, nell’arco dello stesso incontro, assume tre o quattro ruoli differenti con la medesima competenza e manualità. Definizione plastica, DuPont, di poliedricità applicata al rugby, anzi allo sport tout court; uno che sta alla palla ovale come Jordan stava a quella a spicchi. Un ragazzo epocale, insignito ieri del titolo scontato di Man of the match.

Tirando le somme, il post partita, per chi si sforza di fare sempre un passo oltre al risultato che vale fino ad un certo punto, è una guerra interiore tra la voglia di rimproverare i nostri per un’interpretazione troppo all’arma bianca al cospetto dei giocolieri per desossiribonucleico, almeno in relazione alla nostra competenza contingente, e quella di applaudire lo spirito offensivo azzurro, tradotto da giocate nei ventidue avversari perfettibili ma ricche di qualità individuali e di team. E chi continua a rimarcare gli errori individuali difensivi azzurri quasi con scherno, tradotto si intende i placcaggi sbagliati, dovrebbe sapere che quasi ottantacinque per cento di positività, su questi palcoscenici, è un buon numero e che, soprattutto, se si placca per necessità il doppio degli avversari in condizioni di apnea l’errore è fisiologico, oltre che dietro l’angolo, anche per califfi come i nostri Negri, Brex, Cannone e via dicendo. Gente di assoluta competenza che in un pomeriggio ha dovuto placcare quanto un pari ruolo francese farebbe in tre partite o più.

Adesso, nemmeno il tempo di leccarsi le ferite, è già tempo di sfida all’Inghilterra. Altro test terribile nel quale saremo chiamati a reagire a questa scoppola dolorosissima ma con la tranquillità di chi il Sei Nazioni lo chiuderà con una certezza dettata proprio dai crismi del rugby. Uno sport crudo, nel quale non ci si inventa nulla e dove, salvo rarissimi miracoli, a vincere è sempre il più forte. Al più debole, però, l’onere inesausto di dare di sé la migliore versione possibile. Risaputo, del resto, che il popolo suo generis del rugby è ammaliato dal ‘quanto’ ma ancora di più dal ‘come’. Ieri gli azzurri, con buona pace dei detrattori occasionali, l’hanno fatto al cospetto di una compagine che, nelle giornate di grazia, è sinonimo di abbacinante bellezza e concreta spavalderia ed è giusto rendere il merito. Duole ammetterlo, i cugini fanno ancora tutto un altro sport. Si chiama sempre rugby, ma la velocità di pensiero transalpina, che si traduce in mani che si trovano al buio e occhi che non hanno bisogno di guardarsi, lo fa sembrare arte. Roba da Louvre.

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