Italrugby a un passo dal miracolo contro i verdi d’Irlanda

L'analisi di Teo Parini sulla gagliarda prova degli Azzurri

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Persa l’occasione della vita. Va bene, sconfitta onorevole, ma quando ci capiterà di trovare un’Irlanda così fiacca – va detto per onestà di cronaca – e di finire un match sotto break, nonostante mezz’ora con l’uomo in meno per due stupidate a cavallo del riposo che non le si vede commettere neanche tra i ragazzini? Mai più. Che rabbia, ieri si poteva benissimo vincere, tenendo a freno strani istinti che hanno rivitalizzato un avversario incredibilmente in stato confusionale.

Perché, per il resto, cosa vuoi rimproverare a gente come Menoncello con i suoi cento metri totali in avanzamento, praticamente da porta a porta, o a Fischetti, che ha placcato alla morte senza sbagliarne neanche uno. Oppure a Capuozzo, che oltre ad essere la solita scheggia imprendibile si è immolato rischiando l’osso del collo per salvare una meta già fatta, contro un treno in corsa di trenta chili più pesante di lui. Nulla, se non un sentito grazie.

Concentrazione ballerina. Quella che ha annebbiato le idee a Page-Relo, nel frangente che ha portato all’espulsione di Lamaro – una follia, la sua – più annessa meta spacca-morale. O che ha spinto Vintcent a commettere un fallo bruttissimo che gli è valso giustamente venti minuti in panca di punizione. Concessioni indifendibili, le nostre, che a questi livelli sono imperdonabili perché anche una brutta Irlanda come quella odierna ha sempre facilità nel farle pagare in maniera salata. Ma le giornate che nascono storte, spesso sono poi storte dall’inizio alla fine. Infatti, con mezz’ora scarsa sul tabellone, l’Italia deve far conto con tre infortuni che ci privano dei chili di Lumb, della sicurezza della touche fin lì impeccabile e della profondità della panchina. Insomma, avrebbe potuto anche grandinare.

Ma, nonostante tutto, il primo tempo lo si chiude sotto di due soli punti e sugli spalti qualche ragionevole dubbio nei trentamila irlandesi in vacanza a Roma è cominciato a palesarsi. La ripresa, follie a parte, è a tratti una gigantesca ed eroica trincea azzurra. Menoncello è ovunque, al punto che vien da pensare che le maglie numero dodici siano tre o quattro in contemporanea. Ioane, da par suo, fa quel che gli riesce meglio, quindi la freccia, ogni volta che riceve un pallone dà l’idea che possa succedere qualcosa di buono. Garbisi, dopo il calcio-passaggio-meta per Capuozzo sul prato di Totti, e vorrà pur dire qualcosa, riscatta il black out di domenica scorsa con una partita di grande spessore. Poi c’è Allan, la dimostrazione plastica che poter contare su un calciatore affidabile fa tutta la differenza del mondo. La tranquillità che dà morale, quella di portare a casa tutto il macinato che c’è quando si presenta la chance. C’è pure il subentrante Marin, sul finire, e quel break dritto per dritto che, a tre minuti dalla fine, ha fatto urlare al miracolo, rimasto lontano soltanto una manciata di metri.

Provando ad essere razionali, ma non è facile, qualora il Galles non facesse almeno due punti con l’Inghilterra, l’Italia chiuderebbe il Sei Nazioni quinta e senza cucchiaio di legno e, per quanto visto nello scontro diretto, se lo meriterebbe pure. Ma la faccia di Brex nel dopo gara, oggi capitano nonché autore della solita immensa prestazione tutta arrembante sostanza, urla quel che un campione prova epidermicamente quando la storia gli passa ad un metro e non la riesce ad acciuffare. Perché, noi non siamo qui a vendere tappeti, è ciò che è successo oggi. E l’impressione appiccicata alla pelle come colla è proprio quella di aver fatto il possibile per non far pesare alla più brutta Irlanda dell’anno una partita storta intrisa di inaspettata paura. Che peccato.

In definitiva, ci portiamo a casa il punto di bonus, mica poco considerate le due precedenti sconfitte pesanti con Francia e Inghilterra, blindiamo il ranking grazie al successo contro il Galles e, cosa più importante, chiudiamo il torneo consci di possedere il miglior roster della nostra storia, con una profondità di rosa che alle nostre latitudini non si era mai vista. Generazione d’oro che Quesada, insieme alla Federazione, ha il dovere di far rendere al meglio, magari ripartendo dal cuore immenso messo in campo contro l’Irlanda che, non va scordato, detiene la seconda posizione nella classifica mondiale e non è venuta in Italia con l’idea di fare sconti. Di lavoro da fare, lapalissiano, ce n’è tanto, come tanti sono i margini di miglioramento di questo gruppo.

Senza dimenticare che l’Under 20 per poco non chiude il torneo sul podio, tanto che sarebbe bastato solo un calcio in più a segno contro il Galles per acciuffarlo, a testimonianza di un bacino che si sta progressivamente ampliando.

Ci sarà tempo per un’analisi più approfondita di questo Sei Nazioni, per ora ci si limita ad un pizzico di rammarico per quanto, almeno in parte, non è stato, dopo una scorsa edizione esaltante che ci aveva un pochino illusi. Risultati a parte, la fine del Sei Nazioni è sempre un momento triste per gli aficionados del rugby. La magia della competizione più antica del mondo è qualcosa di unico e l’idea di dover pazientare un anno intero prima di immergersi di nuovo è sofferenza pura. Quella di una mischia chiusa da puntellare, di una maul avanzante da spingere, di un placcaggio da chiudere con cuore e braccia. Insomma, tanta.

Ci si rivede l’anno prossimo.

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