In questi giorni l’Iran è travolto da proteste di piazza molto accese. Le motivazioni sono prettamente economiche.
Nonostante la crescita economica degli ultimi due anni, grazie alla ripresa dell’esportazione del petrolio, nel paese sussistono molte criticità, come l’elevata disoccupazione, al 40%. Il governo del presidente Rouhani è accusato di aver tagliato i sussidi alle famiglie, aver privatizzato molte scuole pubbliche ed aumentato il prezzo della benzina e di conseguenza il prezzo degli alimenti.
La protesta è nata nella città, a maggioranza curda, di Mashhad a nord-est del paese, colpita lo scorso anno da un terremoto e non ancora ricostruita, per poi diffondersi in tutto il paese. Le proteste sono dirette a tutta classe politica: i repubblicani al governo e il gruppo di potere religioso-militare (che non hanno bisogno di essere eletti).
Forse, la colpa principale di Rouhani è aver presentato in maniera troppo ottimistica l’accordo sul nucleare, del 2015. L’uscita dall’embargo petrolifero non ha prodotto i benefici attesi in molta parte della popolazione. Il pil iraniano è cresciuto del 4% nel 2017, ma dovrebbe farlo dell’8%. Si aspettano investimenti stranieri che tardano ad arrivare.
Infatti, mentre i francesi sono tornati nel paese con Peugeut- Citroen, addirittura la Renault non se ne era mai andata, e Total è diventata la prima big-oil-company occidentale a firmare un progetto energetico. Gli Usa, con Trump, hanno rallentato il processo di distensione con l’Iran, iniziato da Obama, firmando accordi commerciali sul nucleare con l’Arabia Saudita, competitor nella regione medio-orientale. Le imprese americane, dunque, hanno sospeso i loro accordi commerciali con le controparti iraniane, lasciando campo libero ai francesi.
Incredibilmente l’Italia, di solito succube degli Usa (vedi Russia) o della Francia (vedi Libia) in politica estera, ha accordato una linea di credito, da 5 miliardi di euro, a due banche iraniane, per la riforma della pubblica amministrazione.
Marco Crestani