Il sogno di Fatem

La storia più commovente e straziante raccontata quest'anno al FFDUL di Lugano. A cura di Monica Mazzei

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

La storia più commovente e straziante raccontata quest’anno al FFDUL è stata, senza nulla voler togliere a tutte le altre, quella di Fatem Hossona, ventenne palestinese che ha vissuto tutta la sua vita a Gaza, che abbiamo potuto conoscere grazie all’opera “Put Your Soul On Your Hand And Walk”.

Straziante perché sino all’ultimo giorno, ci rende partecipi della sua vita sotto i bombardamenti israeliani.Il suo sorriso è indimenticabile, perpetuo come una forma di resistenza, il suo inglese praticamente impeccabile, le sue parole mai cariche di odio o di rancore per ciò che sta vivendo.
Colgo anzi una specie di ironia che diventa risata: “Facciamo una vita così semplice, abbiamo sempre avuto poco di tutto… E loro ci uccidono!”.

Fatem descrive la sua terra “come l’unico posto al mondo dove potrebbe vivere”: che altro c’è oltre a Gaza?
La domanda è certamente retorica, Fatem sa benissimo che esistono tanti altri posti nel mondo e come tanti altri giovani oppressi, dice che vorrebbe vedere Roma; ma il suo legame con la sua terra è stretto sino a legarsi con l’anima, decidendo un destino.

Quell’anima che dà il titolo al docu-film che la vede protagonista (solo di tanto in tanto si affaccia alle video-chiamate in collegamento con la regista, qualche altro membro della sua famiglia), di una serie di conversazioni via telefono con Sepideh Farsi, l’autrice di questa opera carica di un valore inestimabile.

Le video-chiamate iniziano nell’aprile 2024, i bombardamenti e la devastazione e le morti improvvise, erano già quotidiane.

Ma ci vorrà qualche mese prima che Fatem pronunci per la prima volta quella parola spaventosa che risponde al nome di carestia.

Attraverso domande semplici, la giovane racconta gli sforzi per vivere una vita normale nonostante tutto.
La regista la invita per la presentazione del film, le chiede se ha un passaporto, ma la ragazza rifiuta… Ha già perso nonna e cugini (la loro morte fu agghiacciante), ed evidentemente si sentirebbe in colpa a mettere in salvo solo sé stessa.

Mi sono sempre domandata come potrebbe essere la vita a Gaza dopo la fine delle ostilità, dopo tutti gli orrori che vi sono stati…
Ho sempre pensato che un odio inestinguibile avrebbe creato una frattura insanabile per l’eternità.
Fatem invece mi “risponde” in modo indiretto:
“Prima o poi finirà. Ricostruiremo tutto”, ha detto alla regista che le ha chiesto come farà a continuare a vivere lì.
Nel trascorrere dei mesi, ad ogni squillo che si protrae, respiriamo insieme a Sepideh la tensione: in qualsiasi momento, la vita di Fatem e della sua famiglia potrebbe essere finita…
È sempre con sollievo che vediamo riapparire il suo sorriso.
Quasi estraniata, ci mostra la distruzione delle case attigue alla sua…
“Di cosa si muore a Gaza?”
“A Gaza si muore di molte cose… Sotto le bombe… Di fame… Di qualche malattia”, ha risposto Fatem con un sorriso.
È sempre più stanca e “distratta”, depressa: la mancanza di cibo incide moltissimo sul suo stato psico-fisico.
Sepideh cerca di incoraggiarla perché sa nonostante tutto, che Fatem è felice di sentirla.
“Sono felice di sentirti”,
“Anch’io”.
Un giorno racconta tra le lacrime della morte della sua più cara amica… In sottofondo, udiamo aerei che sorvolano costantemente.
Arriverà la delusione per il primo ‘cessate il fuoco’ non rispettato da Israele… I primi sfollamenti non più evitabili… Attivati in genere dopo azioni di volantinaggio che annunciano i bombardamenti.
Sino al tragico epilogo.

Chi era Fatem in una guerra che ha depersonalizzato con le privazioni un intero popolo?
Una poetessa. Una compositrice di musiche e canzoni.

Fatem era una sognatrice ch voleva lavorare come fotoreporter, e durante i mesi di conversazione con Sepideh, le ha girato tutte le foto scattate nei mesi di guerra in Palestina.
Nota sulla regista: Sepideh Farsi ha definito le conversazioni con Fatem un ritrovarsi come in uno specchio, dal momento che anche l’autrice ha vissuto a sua volta tante difficoltà, in quanto donna realizzatrice di film sulla situazione iraniana.

Dopo la proiezione, è seguito un dibattito alla presenza dell’Alta Consulente per le Crisi Amnesty International Svizzera, Donatella Rovera e della giornalista Anna Maria Selini.
Ciò che è emerso è basilarmente il fatto che l’impunità concessa a livello internazionale ad Israele, ha permesso un crescendo di privazioni e violazioni dei diritti umani a Gaza, iniziate già nel 2012, anno dal quale la Rovera già non aveva più il permesso di entrare nel territorio, per vigilare e rapportare la situazione.
I palestinesi vivono con poco da molti anni, in realtà.
La guerra è stata solo l’apice di una situazione iniziata molto tempo prima.
È stato infine descritto il funzionamento delle bombe predefinite, capaci di radere al suolo case abitate da intere famiglie: “Quando bombardano, sanno esattamente ciò che fanno”.

Ospiti, volti di rilievo alla 12a edizione del FFDUL, ma non solo per il lavoro di grande valore che hanno offerto al mondo nell’arco di tutta la vita; per il loro prestare voce a chi voce non può avere, perché subisce una guerra che l’ha spogliato di tutto oppure perché vive in terre dove anche i diritti umani fondamentali vengono negati quotidianamente ed in modo preoccupante, sempre di più.
Gaza oggi può essere definita la terra apice della cancellazione della persona in quanto tale: cittadini depersonalizzati, affamati, malati; persone che hanno perso famigliari, amici, genitori e figli in un conflitto, ora si spera giunto alla tregua, che è stato un crescendo di orrore, fino a che un intero popolo ha rischiato di scomparire.
Non “solo” Palestina però, e se l’altra volta vi ho raccontato di Ucraina e immigrazione in Tunisia, oggi scriverò di molte altre storie che compongono il mosaico di tutto ciò che nella vita di ogni essere umano dovrebbe essere aspettativa scontata.

Mi addentrerò quindi nei vari “episodi” che hanno caratterizzato questi giorni.

La sera del 14 ottobre, il Cinema Corso di Lugano, ha visto salire sul palco l’artista mondiale mezzo soprano Christina Daletska, che si è esibita in modo toccante, in una prima mondiale, nel bel canto, avvolta nella bandiera ucraina. La composizione è opera del Maestro Francesco Hoch.

IMMORTAL, regia di Maja Tschumi, Svizzera-Iraq 2024.

Il film, pervaso di toni cupi, racconta le proteste giovanili che si sono sollevate in Iraq tra il 2019 ed il 2022.
Giovani che affermano del tutto disarmati, il proprio diritto ad un avvenire laico che permetta a tutti, donne comprese, i diritti umani fondamentali di libertà.
Diverse sono le storie personali che si intrecciano in questo film: c’è Milo, alla ricerca di sé stessa, che sogna di lasciare il Paese per trasferirsi a Roma, ma il padre le ha bruciato il passaporto e l’ha tenuta segregata in casa per un anno intero, quando ha scoperto i suoi propositi.
In realtà, la legge irachena permette che ogni individuo, anche di sesso femminile, possa scegliere raggiunta la maggiore età, per i propri spostamenti.
Una legge patriarcale non scritta ma radicalmente tramandata invece, non permette realmente una vita libera alle donne.
C’è una sua mica che subisce abusi dal padre, la cui vita è persino in pericolo, ma spinta a ritirare ogni volta le denunce dalla sua famiglia, perché poi non saprebbe dove andare… Un’ombra oscura è rimasta in sospeso: non sappiamo se poi le sia capitato qualche cosa di grave…
Infine, assistiamo ai racconti di un giovane stilista, che ricerca l’affermazione della propria autostima in ciò che crea, ma finirà per strada…
Ci affacciamo ad una società fondata su clan di grande potere, a seconda della influenza culturale dovuta al grado di rilevanza dei propri contributi al Paese (a volte anche mondiali), negli ultimi 80 anni almeno.
Tra le influenze sunnite e sciite che tuttora si irradiano sull’Iraq, un nuovo pericolo di sta delineando: un irradiarsi della politica islamica iraniana sull’Iraq, portando a ben peggiori limitazioni e per le donne, ad esempio, all’imposizione dell’uso del velo, con la perdita definitiva di ogni libertà.
Per questo motivo, Milo ha fretta: formata come programmatrice informatica, ha ormai constatato che tutto ciò che conta nel suo mondo, è l’aspetto fisico e l’essere una ragazza servile ed ubbidiente, anche per il datore di lavoro.
Cercherà di convincere una sua amica a seguirla, ma lei non sembra dare cenno di grande insofferenza per la vita che vive o che potrebbe arrivare…

Dopo questa proiezione, abbiamo seguito la conferenza con il criminologo iracheno (ma lui preferisce specificare di essere nato nel Kuwait), Dr Ahmed Ajil, esperto di Medio Oriente all’Università di Lucerna, intervistato sul posto da Fabrizio Ceppi.

Ho avuto modo di intervenire con un paio di domande ed a questa conferenza, hanno presenziato anche alcune classi scolastiche composte da adolescenti, che si sono mostrati molto attivi, ponendo quesiti interessanti.

Il professore ha innanzitutto così riassunto la situazione in Iraq, dopo la caduta di Saddam Hussein:

“Saddam era un dittatore che aveva preso il potere nel 1979. Nel 79 era cambiato anche il regime in Iran. A renderlo importante è il fatto che la sua influenza creava una barriera all’influenza dell’Iran sull’Occidente. Questo perché il potere persiano è sempre stato molto forte e covava l’idea di irradiarsi su Iraq e altrove… Nel 2003 con l’invasione degli USA in collaborazione con la Gran Bretagna, Saddam cade come ben sappiamo.
Per i giovani nati dal 2003 quindi, Saddam non aveva cosiì importanza. Il vuoto politico che però è seguito, ha messo in atto diverse forze che stanno cercando di prendere il sopravvento. I filo iraniani che erano oppressi durante il governo di Saddam, hanno accresciuto dopo la morte del dittatore il proprio potere, portando alla destituzione di un generale importante per la lotta all’ISIS…”

La mia domanda è ruotata attorno alla comprensione della nuova identità che questa attuale gioventù irachena cerca di costruirsi, slegandosi da tutto ciò che vi è stato in precedenza, e respingendo i dettami e la storia che avevano formato i loro genitori.

La risposta del professore è stata:

“A questa bella domanda posso rispondere innanzittutto con i due slogan della protesta giovanile. Uno era “Pace! Pace!”, perché non sono mai state impiegate armi. Il secondo era un inno al pattriottismo: loro rivendicavano una identità irachena, libera da affliazioni settarie e quindi laica. Era comunque ciò che anche Saddam Hussein aveva sempre cercato di far prevalere nel popolo come valore primario. Sotto il suo governo era propibito parlare di sciiti o sunniti e quant’altro, perché cose come queste frammentano solo l’identità nazionale”.

BROKEN VOICES, regia di Ondrej Provaznìk
Repubblica Ceca, Slovacchia, 2025

Ambientato nella Repubblica Ceca dei primi anni Novanta, la vicenda è basata sulla storia vera della protagonista Katarina e si ispira al tristemente famoso caso dei “Bambini di Praga”.

Protagoniste due giovanissime sorelle di 15 e 14 anni.
La maggiore fa parte da molto tempo della rinomata scuola cittadina dove insegna un celebre docente di canto, e ha davanti a sé un avvenire nella musica.
La più giovane ne fa parte da meno tempo eppure, per la sua voce molto performante, attira molto presto le attenzioni dello stesso docente che le da sempre più spazio a scapito delle più “anziane”, scatenando qualche gelosia e qualche piccolo dispetto.
Il ritiro in una località di montagna, in un albergo con diverse offerte, inclusa una sauna, sarà l’occasione di mettere alla prova le coriste, tra le quali a sorpresa è già stata inclusa anche Katarina, per la selezione finale di 20 cantanti, che si recheranno a rappresentare il loro Stato negli USA.
Durante il soggiorno, Katarina rimane sorpresa nello scoprire la mancanza totale di distanza e pudore tra insegnante e ragazze, soprattutto in occasione della sauna.
In realtà, insieme ai commenti un po’ misteriosi e maliziosi delle altre compagne, sarà solo una delle prime avvisaglie di ciò che dovrà succedere…
Nel mentre, anche la gelosia da parte della sorella maggiore diventa più tangibile: da cosa teme di essere realmente scalzata?

Il linguaggio è spesso un po’ nebuloso, anche in forma di immagine, soprattutto quando torna in mente il “sentiero della morte” che fungeva da scorciatoia per il rientro dopo la scuola, e che il padre delle ragazze si preoccupava non percorressero, a causa dell’alloggiarvi di un emerginato…

Ma è davvero solo in quei posti che si cela il pericolo?

La risposta definitiva arriverà, sconvolgente eppure consumata in un’atmosfera di quasi “normalità”, in hotel in America…

Per Katarina non sembra tanto questo il vero evento traumatico del soggiorno, quanto l’aver di colpo compreso che subito dopo sarebbe stata completamente ignorata, sia come ragazza che come artista…

Un bel film che ci catapulta in degli anni che somigliano ai nostri Settanta.

D IS FOR DISTANCE, regia di Christopher Petit ed Emma Matthews, Finlandia, 2025.

Un bel film storia vera, che narra lo sviluppo di una grave forma di epilessia che avrebbe afflitto il protagonista, il giovane Louis.
Da bimbo sano e curioso, a giovane colpito a ripetizione da crisi di “assenza” che precedono spesso le crisi convulsive vere e proprie, dolorose e sfiancanti.
La costruzione creativa del lungometraggio, ci mostra frammenti di favole come Alice nel Paese delle Meraviglie, un po’ perché è il nome che è stato dato alla particolare forma epilettica di Luis, un po’ perché anche la protagonista del famoso racconto diventatava “assente” e “viaggiava” in un altrove dove non era possibile “raggiungerla”.
Molti sono anche i riferimenti storici-politici-religiosi: secolarmente, l’epilessia ha sempre subito un grave stigma.
Frammenti immaginari o documentari che si mescolano fra loro in sequenze di immagini, creando una vera opera d’arte.
Louis sarà sottosposto a tante cure, tutte sbagliate e con effetti colaterali gravi che lo portano a perdere capacità acquisite, dalle più semplici a quelle musicali. Solo dipingere lo salva dallo spofondare nel nulla, come in un tunnel senza uscita…
I medici toglieranno ogni speranza ai suoi genitori.
Ma la madre non si arrende e continuerà a fare ricerche indipendenti, sino a quando scoprirà una cura sapientemente messa a punto a livello medico-farmaceutico a base di cannabis.
Si parte dunque per l’Olanda, Paese dove il britannico Louis migliorerà gradualmente sino a non avere più crisi per 4 anni e potersi definire guarito.

Qual è la posizione inglese a riguardo?
Di completo rifiuto.

Il film contiene una denuncia forte, ma ancora di più l’approfondimento seguito alla proiezione, con il regista Chris Petit.

La conferenza ha messo in luce come la lotta della madre di Louis continui tuttora, come quella di tanti inglesi, per garantirsi le cure gratuite come diritto dopo una diagnosi importante, ma anche il riconoscimento e l’ascolto della voce di pazienti e famiglie, che meglio di tutti conoscono la terapia che li ha condotti al miglioramento, senza l’aggravio di pesanti effetti collaterali.
Lo spettro di un sistema sanitario completamente piegato agli interessi politici ed economici, si espande sino a riferire un fatto ancora più mostruoso: durante il Covid vigeva l’ordine di non rianimare pazienti come loro…

Quale Occidente, dunque?
E quale protezione per i più fragili?

ONLY ON EARTH, regia di Robin Petré.
Danimarca, Spagna, Svezia, 2025.

In Spagna la piaga degli incendi devastanti a causa del cambiamento climatico, non si placa.
Ogni estate, di anno in anno, è un crescendo di ettari di foreste distrutti e di perdite economiche per allevatori e agricoltori, gente che fin dalla più tenera età, da generazioni vive in simbiosi con la natura.
Nello studio della complicata situazione, emerge come un dato impressionante, il comportamento degli animali selvatici: vi sono testimoni che hanno riferito di aver visto animali ritornare di corsa verso le fiamme, quando hanno trovato l’uomo al limitare delle foreste in fiamme.
Come è possibile abbiano preferito il fuoco? Il fuoco come arma dell’uomo per costringerli a consegnarsi?
L’essere umano è percepito quindi come una minaccia primaria in una natura che cerca di difendere sé stessa…

Report dalla conferenza stampa con il regista indonesiano GARIN NUGROHO, premiato per i diritti umani dal FFDUL dodicedima edizione, moderata dal giornalista Bruno Bergomi. Il film del regista vincitore, sarà proiettato in questo festival in anteprima svizzera: “Whispers in The Dabbas”. Va ricordato che lo stesso fu selezionato nel 2000 al Locarno Film Festival, per il lungometraggio “PUISI TAK TERKUBURKAN”, vincendo il Video Pardo d’Argento.

Nugroho ha volto la sua attenzione alle categorie sociali più povere e marginali dell’Indonesia.
Il suo modo di espreimersi durante la conferenza è stato molto speciale, poetico, quasi per immagini come il suo lavoro di regista: lo ascolti e spesso vivi come in un film i racconti degli agenti che spesso gli entrano in casa a sorpresa per controllare cosa stia combinando, questa è la realtà in Indonesia: a comandare e a fare da tramite tra il governo ed il popolo sono quelle poche “maglie blu”.
Essendo nato nel ’61, ha vissuto tra i peggiori momenti storici della dittatura che stringe il suo Paese, nonostante si definisca una “Repubblica Democratica Islamica”, ma dove principalmente, il più minacciato resta il diritto di espressione.
Il presidente attuale era niente meno che un generale!
Per decenni ad esempio, gli era stato impedito di entrare negli Stati Uniti, a causa delle sue pesanti violazioni dei diritti umani… Invece oggi si trova in America, con le nazioni che debbono raccogliere soldi per Gaza! Ci sarà un “motivo”…
Questo generale è stato eletto con oltre il 70% dei voti e si tratta di un fattore molto preoccupante!

“Gli attori di queste dittature sono in realtà anche le nazioni che restano silenti nel mondo, che non commentano. Per questo, un festival come questo è molto importante, perché ci permette di esprimerci come si deve e liberamente. L’arte si unisce così a quello che pensiamo e al nostro cuore, accrescendo il pensiero critico e la speranza”.

Alla domanda su come vengano finanziati nel regime i suoi film, ha risposto che ci sono diversi modi, ma il 90% non viene finanziato dall’industria cinematografica. Solo due dei mie film è stato finanziato dal sistema cinematografico. Sembra un po’ strano, ma di solito sono persone che lo fanno a titolo personale o associazioni. Ho dovuto sopravvvere e non pensare più di tanto! Mi sono detto che ogni piccola cosa è importante, dalla foglia che cade all’abero che pianti e del quale ti prendi cura”.

Alla mia domanda se ai suoi concittadini sia permesso vedere i suoi film, ha riposto:

“Nell’era di Suharto era molto difficile. Adesso hanno accesso ai miei film. Vi sono dei festival appositi in Indonesia dove è possibile vederne le proiezioni ed in più, durante il governo di Suharto ho viaggiato molto per il Paese, e ho sviluppato diverse ‘comunità di film’. In quelle zone i miei film potevano essere proiettati anche allora. Ma i cinema ufficiali non proiettavano i miei lungometraggi”.

(Nella regista Sepideh Farsi)

Monica Mazzei
Freelance culturale per
TicinoNotizie.it

■ Prima Pagina

Ultim'ora

Altre Storie

Pubblicità

Ultim'ora nazionali

Altre Storie

Pubblicità

contenuti dei partner