C’è una storia d’amore, o forse di odio ma poco cambia, tra un luogo inospitale e scorbutico e una disciplina meravigliosa che vale la pena di raccontare. La Trouée d’Arenberg, per dirla alla francese, più che una strada disegnata sulle pietre in mezzo agli arbusti è proprio come sarebbe concepito l’inferno qualora esistesse, un incubo.
Da quasi sessant’anni, i due chilometri e mezzo situati a Wallers, minuscolo comune del dipartimento del Nord nella regione dell’Alta Francia, sono il corredo cromosomico che è cifra stilistica di una corsa che da Parigi si spinge fino a Roubaix e che è sostanzialmente due cose: uno dei cinque monumentali eventi ciclistici capaci di cambiare il destino dei vincitori e, soprattutto, l’università della pietraia. Perché, arrivare prima di tutti nel velodromo più famoso al mondo, presuppone un certo numero di doti che è superfluo elencare ma la competenza in tema di pietre sta in cima alla lista. In altre parole, per primeggiare occorre sapersi districare sul selciato in sella a una bicicletta. Hai detto niente.
Il matrimonio ha una data ben precisa, oltre che un antefatto in assenza del quale, probabilmente, non sarebbe stato possibile celebrarlo. La Parigi-Roubaix, siamo alla fine degli anni sessanta, è a rischio identitario perché la modernizzazione della viabilità ha drasticamente ridotto i suoi canonici tratti di pavé, tanto che l’edizione del 1967 passa agli annali per essere egemonizzata dai velocisti puri che nel velodromo giungono in massa a disputare la volata di un gruppo nutrito. Troppo nutrito, al punto da far incazzare, e non poco, Jacques Goddet, l’organizzatore, il cui “Il n’est pas possible” è stampato nei libri di storia. Per i meno avvezzi alle dinamiche ciclistiche, è un po’ come quando nel tempio di Wimbledon, scenario che emana tradizione da ogni angolo lo si guardi, si finisca per vincere il trofeo remando a fondo campo come mezzofondisti prestati al tennis senza toccare mai la palla al volo. Situazione, peraltro, sciaguratamente possibile ma è un’altra storia.
Tuttavia, a differenza di quanto non fece il tennis con l’avvento delle moderne tecnologie, il ciclismo ben pensò di correre subito ai ripari restituendo la leggenda ai suoi attori. Goddet, infatti, intima ai collaboratori di trovare, a costo di setacciare la Francia intera, strade non ancora intaccate dal progresso. Stablinski, che fu gregario di Anquetil, si ricorda che da ragazzino, sotto il ponte che collega due ali di una miniera resa invisibile dai boschi che percorreva per andare a lavorare, si snoda una strada che sembra fatta apposta per impreziosire il tracciato della Roubaix. È un rettifilo lungo il giusto, con la pendenza che impercettibilmente sale avanzando con Parigi alle spalle e le pietre, buttate a terra con tanta irregolarità da apparire financo pianificata, creano solchi spessi un palmo come se il tempo si fosse scordato di passare da lì. Quello che serve per chiamare a raccolta i funamboli che al talento per la guida uniscono la cilindrata massima dei quadricipiti. Nasce il mito.
L’edizione del 1968 fa quindi la sua conoscenza della foresta di Arenberg e, la stessa foresta, comincia a raccontare storie di epica ciclistica. Aremberg è un nome che incute timore, impone rispetto e, democraticmente, non guarda in faccia a nessuno. Nemmeno ad un gigante come Johan Museeuw, fiammingo autoctono nonché divoratore di pietre, che, infatti, disarciona. Quel giorno, a rendere il tutto ancora più terribile, una coltre di fango ed escrementi animali, ciò a voler ricordare il carattere primordiale di questo spaccato di mondo, nasconde i ciottoli resi scivolosi come saponette.
Il fotogramma che immortala Museeuw, il più bravo di tutti, a terra impotente, in seguito ad una caduta che solo per miracolo non gli costerà l’amputazione della gamba brutalizzata dalle pietre, è il monito che, più di tante parole, descrive l’essenza stessa della foresta. Posizionata ad un centinaio di chilometri dal traguardo, Arenberg traccia una linea rossa che è spartiacque, perché delimita un prima di paura mista a speranza e un dopo che è incognita e bellezza insieme. La manifestazione tangibile dei destino.
Domenica prossima si torna nella foresta. Cinque interminabili giri di lancette da correre in apnea, con le vibrazioni che, dalle pedivelle violentate dai rimbalzi, risalgono fino a interessare ogni centimetro di corpo, sollecitato alla stregua di una corda di chitarra pizzicata dalle dita. Alcuni sembreranno volare, come se l’attrito si fosse scordato di loro; altri, al contrario, avranno lo sguardo di chi ne invoca la fine per dare una soluzione alla sofferenza. Arenberg, al solito, non ci dirà chi vincerà la corsa ma renderà evidente chi non ha le qualità per farlo. Classifica a parte, dal primo all’ultimo dei viandanti, ci vuole un coraggio da leone per scendere all’inferno con un numero appiccicato sulla schiena e lanciarsi a rotta di collo sul pavé. Il minimo che si possa fare in questi casi è dire grazie a coloro che si prestano con testa, cuore e gambe ad una delle recite che consentono al ciclismo di assurgere a paradigma di vita. È la pedagogia associata alla bicicletta, capitolo uno: come uscire vivi dalle foreste quotidiane.
In bocca al lupo.
Teo Parini