ABBIATEGRASSO – Non vi faremo una cronaca del premio Italo Agnelli, andato in scena nel complesso dell’Annunciata sabato scorso, per due ragioni: alla cronaca penserà la nostra esperta di fashion-style-costume-haute couture Manu Arcidiacono. La seconda perché lo scrivente preferisce un altro registro narrativo.
Cominciamo d’istinto, dicendo che ci sono certe sere- o certe notti, prendendo a nolo il Luciano Ligabue più vero e strapaesano degli esordi- in cui Abbiategrasso è davvero bella.
In cui si libera dei timori, delle paure, delle invidie, dei rancori, dei limiti da crisalide che troppo spesso a nostro avviso la frenano e si tramuta in una magnifica farfalla, capace di librarsi in volo. Libera e avvolgente, quasi conturbante (Abbiategrasso sa essere femmina).
Un sindaco dimenticato troppo in fretta, Alberto Fossati, codificò anni fa la differenza tra l’essere una città di provincia e l’essere provinciale. La differenza che passa tra i due termini è siderale. Sabato sera, grazie al premio Agnelli, Abbiategrasso ha come celebrato se stessa relegando in un cantuccio il provincialismo.
L’appuntamento si rinnova ogni anno il 10 marzo. La scelta di questa data non è casuale ma rappresenta l’anniversario dalla nascita di Italo. Per onorarne la memoria i figli Brunella, Silvia, Manuel e la moglie Mirella, in collaborazione con i dipendenti dell’Associazione Commercianti e della BeM Service, s’impegnano attivamente per realizzare l’iniziativa.
Nel corso della serata, vengono invitati a parlare una serie di esempi vincenti che concretamente, hanno contribuito a migliorare i contesti urbani, sociali e naturali, con un occhio particolare di riguardo verso la componente commerciale. Persone che intraprendono quindi dei percorsi formativi insieme agli operatori commerciali, culturali e anche ai cittadini per favorire la partecipazione, la condivisione e il libero scambio di idee.
E così sono passate magnificamente le tre ore coordinate dal bravissimo Ivan Donati (perfetto anche quando sbaglia: è una dote), da una Brunella Agnelli fasciata in un bellissimo abito rosa, omaggio al Giro d’Italia, e da un Manuel Agnelli poliedrico ed efficacemente mutante.
Il premio Agnelli riesce a mettere insieme un archistar come Stefano Boeri, uno scrittore come Paolo Giordano, un vignettista visionario come Gipi, un Comune eco-virtuoso del Piemonte con le scuole cittadine, col giovane pasticcere Luca Sacchi e il maestro Andrea Besuschio, con una straordinaria realtà imprenditoriale come la Sc Project di Stefano Lavazza e Marco De Rossi.
Ci sono piaciuti persino Sem e Stenn, che non conoscevamo affatto (non guardiamo X Factor), ma che ci hanno ricordato quanti giovani musicisti italiani siano debitori della passione da ‘pigmalione’ di Manuel Agnelli (chi scrive ricorda una sua ‘incursione’ ad un concerto di Dente: la cosa più buffa è che ho imparato a conoscere ed apprezzare gli Afterhours solo nel 2011, grazie ad un’allora fidanzata che aveva 15 anni in meno di me..).
Il fil rouge che unisce tutte queste storie, tutte queste persone, è la volontà- ed il talento- messe a frutto per un successo che da personale riesce a farsi di comunità. E di prossimità.
E poi c’è una cosa, forse più intima e celata, che noi tuttavia abbiamo colto. Negli occhi visionari di Italo Agnelli, che non s’era scelto una vita così facile seppur fatta di visibilità e prestigio, c’è sempre stata secondo noi quella ‘certa’ sofferenza che Werther Pedrazzi ha descritto così magistralmente negli occhi di Boscia Tanjevic, uno dei più grandi allenatori di basket nella storia europea:
“Boscia non era un uomo: era un romanzo. D’amore, rabbia e avventura. Innamorato della luna, nelle notti fredde, limpide e serene. Boscia guardava i fuochi nella notte di Milano, non erano i falò accesi per scacciare i lupi in una vigilia rivoluzionaria, ma soltanto cupi segnali d’improvvisati mercati dove si vendono e si comprano corpi avariati, non certo l’anima delle cose e della gente, come sognava Tanjevic. Boscia deve aver patito tristezze metropolitane. Avara. Per uno zingaro tenero e crudele, che amava bere il fuoco liquido e sognare l’Utopia e la Città del Sole”.
E siccome non è mai facile essere il padre di figli vivaci e avvinti da tante cose, e non è altrettanto facile essere figli di persone come Italo Agnelli, quello che Brunella, Manuel e Silvia hanno fatto in questi anni- e che Manuel ha cantato sabato sera- ci sono parsi come la scena dell’omaggio di Fabrizio De Andrè al suo ‘ingombrante’ padre, il professor Giuseppe De Andrè, mentre lo accarezza l’ultima volta volta prima di morire (suo papà era già molto malato), assieme a suo fratello Mauro e avvolti, in una condizione quasi estatica, dalle note di Mozart. Il compositore preferito di suo padre.
Le parole sono quelle del Suonatore Jones. E siamo convinti che siano la perfetta summa di quanto abbiamo visto, e sentito, sabato sera.
“Sentivo la mia terra vibrare di suoni, era il mio cuore
e allora perché coltivarla ancora,
come pensarla migliore.
Libertà l’ho vista dormire
nei campi coltivati
a cielo e denaro,
a cielo ed amore,
protetta da un filo spinato.
Libertà l’ho vista svegliarsi
ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze
a un ballo,
per un compagno ubriaco.
Finii con i campi alle ortiche
finii con un flauto spezzato
e un ridere rauco
ricordi tanti
e nemmeno un rimpianto”
Fabrizio Provera