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Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini- Capitolo 7

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Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

Il tavolo del cantiere e del pranzo estivo

 

Prima del cavalletto che sorregge i legni (di cui vi ho già raccontato), è nato il cavalletto per il pranzo del cantiere. E’ nato con la casa, o meglio, è arrivato mentre la casa era ancora priva del tetto, che l’avrebbe riparata da neve, vento e acqua, e ancora la sta proteggendo, nonostante i reiterati attacchi di quelle bestioline feroci, dei ghiri che, stagionalmente, cercando riparo sotto lo strato dell’impermeabilizzazione che sta sotto le tegole, muovono noci e ghiande con un rumore che, nelle notti di luglio, diventa quasi assordante e a cui, prima o poi, dovrò porre rimedio, prima che finiscano con il divorarmi anche il tetto stesso.

Dunque, mentre il buon Giuseppe, i figli e la sua intera famiglia (fratelli, il nonno, –il padre di lui- come lo chiamavano, e qualche giovane suo marmocchio) si apprestavano a rimettere in sesto le pietre, che egli aveva appena smontato, sotto la mia presunta maestra guida (difficile dire che, allora, già possedessi quelle poche doti, che sono riuscito a sovrapporre nel corso della mia storia di architetto). Io cercavo, nei fine settimana di darmi da fare e di allestire alcune lavorazioni, al fine di poter risparmiare qualche liretta –ah le benedette lire!!!- e trovare anche un po’ di soddisfazione.

In quei giorni di lavoro, ero spesso aiutato da un mio buon amico (Michele) e, sporadicamente, da mio fratello, che così sottraeva quelle giornate al suo divertimento, per aiutarmi.

Ci pensai da subito: all’Iper, che avevano appena aperto, andai e comperai due robusti cavalletti (quelli che si potevano agevolmente ripiegare e far diventare piatti)e, passando dal buon Peppo (il Giuseppe Alemani falegname in Magenta) recuperai un piano di truciolare, rivestito di uno strato di melammina, che ne avrebbe facilitato la tenuta e la pulizia.

Ricordo ancora molto bene la misura: 70 x 120 centimetri, così si sarebbe potuto mangiare comodi. Arrivati al Caselle, in una bellissima mattinata di settembre del 1987, decidemmo di piazzare da subito il piano, per appoggiare, da prima, gli attrezzi per il nostro lavoro e, intorno all’una, il nostro desinare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quello fu il primo tavolo del Caselle, tanto che, appena il Giuseppe montò il tetto e, successivamente, completò il piano intermedio (quello che ora definisce la camera dei “nonni” e il disimpegno della zona nord), stabilimmo che, sopra quel piano, avremmo adagiato il futuro tavolo e che, quella stanza, sarebbe diventata, per il periodo del cantiere, la nostra sala da lavoro e da pranzo.

Si era talmente abituati ad utilizzare quel piano per tutto che, un giorno, stanco di vederlo traballare un poco, ogni qual volta s’incespicava con i piedi, rischiando di chiudere il cavalletto stesso e di far precipitare, così, il tutto a terra e, con esso, anche ciò che sopra stava in qualche modo, galleggiando, decisi di inchiodare il piano ai cavalletti. Così posi, tra un’asta e l’altra dei cavalletti, una sorta di sbarra di legno che avrebbe evitato la chiusura accidentale delle due metà e poi, sopra ai tiranti metallici, che, aperti, stavano leggermente inclinati (e che mi procuravano uno stato di disagio visivo), una seconda sbarra di legno, stavolta però ortogonale a quella di sotto, che avrebbe fatto da tramite tra i cavalletti e il piano di truciolare.

“Ah bene”, mi dissi, “ora è proprio stabile!”

Spesso ci dimentichiamo di come nascono le cose, anzi, si è talmente abituati a vedere alcuni oggetti in un posto, che sembrerebbe strano pensare ad un tempo in cui le disposizioni erano differenti.

A volte il tempo sovrappone, oltre che i giorni, anche alcuni oggetti. E’ capitato così che, su quel cavalletto, più precisamente, sui due cavalletti e su quell’asse di truciolare, è stato, ad un certo punto, collocato un altro piano, più grande, più lavorato, levigato, dipinto e sverniciato almeno quattro o cinque volte nel corso di questi trent’anni. Anche gli storici sostegni, “i cavalletti”, non sono stati sottratti ai cambiamenti, tanto che, anch’essi, verniciati, protetti dalle angherie che il tempo cerca di incastrare nelle molecole della loro materia. Tutto questo, persino, a dispetto del tetto del portico, che protegge quell’apparente accozzaglia di aste, piani, viti e vernici, sin dal 1988. Un ombrello stabile e fisso, che protegge gli storici arredi (diventati quasi fissi, nel corso di questi oltre trent’anni) dal freddo incessante dell’inverno, dalla pioggia battente, che lì non arriva, e dal caldo torrido del luglio di ogni estate. Il vento, passa da sotto la fessura dei due tetti, forse ad asciugare quel poco di umidità, che la calura estiva non riesce a far evaporare.

Ivan D’Agostini

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