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Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini- Capitolo 5, Giorgio

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E’ stato un attimo, si è liberato di quel suo fardello, non poteva non raccontarmi quella cosa, che ora pare non esistere più, almeno come fardello.

Il tempo pare sia un ruscello, scorre senza sosta, lento e continuo. Sono ore che mi parla dei suoi sogni, a volte, in maniera del tutto accidentale e mi racconta anche di alcuni dei suoi vicini,, quei vicini che tra due giorni non vedrà più, almeno non lì dove vive ora: “Il tribunale mi ha dato ancora dieci giorni, poi dovrò uscire e devo cercare di svuotare tutto altrimenti si prendono anche le mie cose, i miei libri, i miei disegni; eh no, quella è roba mia è la mia vita. La casa che se la prendano pure, e fanculo tutti,, condomini e banca di merda!”

Pur tuttavia, colgo gioia e non tristezza, anzi. Mi pare persino che questa cosa lo abbia eccitato al punto che ne è quasi contento.

“Ma sì, ma sì, mi rimetto in moto, sin che si vive si respira, si brucia ossigeno e si produce anidride carbonica, ahhh”,  ride, “ pensa l’anidride carbonica, nutrimento per le piante, per questi alberi, per i tuoi alberi lassù al Caselle, un sobbollimento e un rimescolamento … ahhh.” Continua a ridere , si alza e gira intorno al tavolo, poi mi prende per una spalla e mi tira fuori, al freddo, mentre fuori scende una leggera farina bianca; si accende un sigaro e mi abbraccia: “Sei un vero amico Ivan, grazie. Grazie.”

Mi sembra uno di quegli uccellini che rifanno il nido ad ogni stagione e lo rifanno più bello, più comodo, più resistente e più spazioso di quello precedente, così che le uova potranno passare da due a tre, poi quattro, poi cinque e magari, anche le femmine potranno essere due, poi tre, poi le coppie passeranno da una a due a tre, un harem collettivo, tutto sino a che la vita terrà.

Siamo seduti sulla sponda del grande fiume, l’aria si sta facendo fredda, Giorgio ha acceso un secondo sigaro, l’aroma alligna tra le pieghe del tessuto delle nostre giacche, sbuffi cerulei si librano nell’intorno, la fragranza invernale inizia a farsi sentire.

Giorgio si alza di scatto, pare abbandonarmi ma, subito dopo, riappare, ha in mano due bicchieri: “Tieni, beviamoci questo Bargnolino[1], è fantastico, lo fa la madre del mio amico oste. Pensa, va sui monti dietro, a casa tua,a raccogliere le bacche, pare abbia una sua località segreta, neppure noi sappiamo dove sia, neanche il figlio, lei si porterà questo suo segreto nella tomba, finita lei finirà anche il suo Bargnolino.”; credo anch’io sia giusto così, nulla deve essere per sempre, perderebbe di valore altrimenti, e non posso non pensare all’analogia con la sua casa e al fatto che ora non l’abbia più.

Devi avermi letto nel pensiero o sono stato così disattento che ho mormorato qualcosa ad alta voce, perché mi guarda e mi dice: “ Eh, pensa Ivan, a quel coglione che si è conquistato la mia creatura, non capirà un cazzo delle mie vere intenzioni e, così, quell’oggetto apparterà a me e alla mia famiglia soltanto, forse la trasformeranno, anzi, mi auguro che avvenga ciò e così quella sarà stata nostra per sempre, come il Bargnolino della Maria.”

Il freddo sta svanendo, sarà l’alcol, sarà il fumo del buon toscano, saranno le parole, sarà il calore dell’amicizia che trasuda dalle nostre menti, sarà l’euforia della coscienza della vicinanza, sarà il luogo, saranno i fumi dei pissarei[2] che presto ingurgiteremo, non so. Giorgio è contento, quella sua preoccupazione non gli appartiene, è incoscienza? Mi domando cercando, nei meandri delle mie passate esperienze, risposta, ad un quesito, che non avrò mai.

Rientriamo, il camino fa bella mostra di sé, sul braciere ardono i ciocchi spaccati di robinia e di roverella, scoppiettano lanciando per aria faville infuocate, quel rumore, che mi è famigliare, oramai da un trentennio, riscalda ancor prima di sentire, di essergli vicino. Ci sediamo di lato, così entrambi possiamo godere della vista del fuoco.

[1] Bargnolino, o più comunemente in italiano Prunella, è un liquore dall’alta gradazione alcolica, ottenuto dalla infusione delle drupe di prugnolo selvatico, detto anche pruno spino (in dialetto piacentino: bargnò), arbusto tipico dell’Appennino tosco-emiliano. I frutti vanno raccolti nel mese di ottobre. Nel dialetto piacentino prende il nome di bargnolein.

[2] Pissarei: pisarei e fasò sono un piatto tipico della tradizione povera piacentina, simili a dei gnocchetti come forma, sono preparati con acqua, pane secco grattugiato e farina e poi conditi con un sugo a base di fagioli. Il nome deriva probabilmente dalla storpiatura di “bissa” che in dialetto significa biscia o serpente..

Ivan D’Agostini

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