Mi viene in mente il vento di marzo e le foglie delle querce. Lรฌ nel bosco del Caselle e dintorni, crescono numerose roverelle, alcune riescono a raggiungere dimensioni ragguardevoli, se non vengono catturate dalla mano ( e dalla moto sega) dellโuomo. Le querce hanno una particolaritร , le foglie non cadono tutte in autunno, anzi, quasi tutte diventano marroni e rosso cupo, un ruggine scuro scuro, e restano attaccate con quel picciolo, secco e duro, al ramo madre. Stanno lรฌ tutto lโinverno, noncuranti del freddo, del gelo, della neve, delle nuvole umide che avvolgono quel mondo spesso tra lโautunno e lโinverno, a volte gelando sopra le cose (la galaverna), indifferenti ai passaggi degli sparuti scoiattoli in cerca di qualche raminga ghianda o delle cinciallegre che si attardano sui rami in cerca di sporadici semi.
Poi, senza che nessuno abbia fatto niente, allโimprovviso in una giornata di marzo, quando lโaria inizia a muoversi, da destra a sinistra, da nord a sud e in ogni dove, spinte e sospinte da quel vento che soffia sempre piรน forte, sempre piรน forte, le foglie, secche e quasi trasparenti, si staccano, lasciano la base, abbandonano la casa che le ha tenute in grembo sino a quel momento, per lasciare in mostra la nuditร della vita che reclama la sua presenza.
Solo allora si capisce che quelle lastre hanno protetto le future gemme e che le stesse hanno liberato la crisalide solo quando sarebbe stata lโora. Il vento di marzo: abile pulitore e liberatore della futura vita.
Quasi.
Anzi il mastro potatore, sommo giardiniere, progettista, paesaggista e visionario creatore di mirabili suggestioni (e se non ci credete provate a pensare alla variabilitร metereologica di questo mese e alle novitร che si mettono in campo in soli trentun giorni).
Allora, alla pari di quel vento, che a ogni stagione reclama il suo compito, ho pensato che ciclicamente, ci fosse la necessitร di qualcosa di drastico, come la mannaia tagliente del boia, che taglia la testa dei prepotenti, dei sovrani poco inclini alle ragioni del popolo. Drammatica scelta, ma a volte necessaria decisione.
Il bosco รจ decimato, cento, mille, diecimila alberi si sono spezzati, frantumati, molti caduti e destinati alla morte. Una sorta di pulizia (mi auguro non etnica), che farร sopravvivere i piรน forti. Eโ la legge della natura, quella legge che sovrana regola la vita (quella di tutti e anche di noi formichine) e detta le sue, per noi a volte atroci, condizioni.
La natura conosce lโequilibrio e lโorologio della vita.
Certo che di cose ne vengono in mente guardando lโessenzialitร degli accadimenti, natura e semplicitร , dove in una semplice foglia convive il complesso e il complicato.
Ma ora, anzi fra poco, dovrรฒ capire come โriordinareโ il trambusto.
Anche qui non posso fare a meno di fare alcuni paragoni.
Il primo che mi viene in mente รจ quello tra il giardino allโitaliana e quello allโinglese. Pper farla breve e alla spicciola, noi, italiani, siamo piรน domestici, tendiamo (strano ma vero) a riordinare il tutto[1]: aiuole cintate di file di sassolini, siepi di bosso basso e steso a forme geometriche, una sinfonia di disegni che dipingono il verde secondo un progetto che si rifร alle necessitร di una grafia specifica. Al contrario il giardino allโinglese รจ la trasposizione della casualitร della natura. Niente di specificatamente pettinato, ma un clone della natura, magari anche controllato ma senza geometrie regolari, dove sono assenti le simmetrie.
Perchรฉ vi ho detto questo? Perchรฉ ho sentito lโesigenza di specificare questa nota. Ma diamine, perchรฉ al Caselle, sin dal millesettecento, anno piรน, anno meno, รจ arrivato lโuomo: avamposti pastorizi, forse soldati di ventura che, abbandonata lโarmatura si sono ritirati a vita tranquilla, e lรฌ hanno iniziato a gestire il luogo. Sono diventati da cacciatori-raccoglitori quali erano, agricoltori e coltivatori.
[1] Siamo da sempre alla ricerca di unโarmonia geometrica, compositiva, stimolante per il corpo e per la mente, frutto di una costante e peregrina rielaborazione.
Ivan D’Agostini