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Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini

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Quindi pazienza, sì perché, prima di fare un cosa, occorre osservare, per tracciare uno schema delle priorità, per sondare prima con la mente, i percorsi futuri, che la mano e il braccio dovranno compiere: è un arte mentale. Vi obbliga a comprendere le positività e le negatività delle vostre supposte azioni e di mettere in inventario cosa potrebbe succedere se, e cosa potrebbe non succedere se.

E’ una strategia, come se foste di fronte ad un’immensa scacchiera e i pezzi fossero ancora da costruire o,  addirittura da inventare.

La materia in fondo è quasi sempre quella, aggregata o non, la materia è semplice e, al tempo stesso, complessa. Un pezzo di pietra è un pezzo di pietra, dura, fredda, inanimata, scarna e scabra proprio esattamente come la Pietà di Michelangelo o la Paolina Bonaparte del Canova, eh…?!? Direi di no,  vero? La materia racchiude in sè valenze infinite, sta a noi saperle trovare, come il punto giusto per togliere ciò che ne impedisce la vista intima (Michelangelo per tornare ancora a lui, diceva che tutto sta già lì dentro, che lui si limitava a togliere il superfluo, l’eccesso[1]) e, allora, aggiungo io, come avrebbe potuto, se non avesse trascorso del tempo ad osservare a scrutare il punto esatto dove dare la martellata e il colpo di scalpello decisivo.

Ecco, sì decisivo, il punto esatto da dove cominciare, dove iniziare l’operazione, quella benedetta operazione di smontaggio che mi ha, e che ci ha incatenato da qualche giorno sino ad ora.

Lì l’ho trovato, l’ho visto, eccolo lì, sta lì in tutta la sua trasparenza e, sì, perché una cosa diventa trasparente nel senso che non cela la realtà dell’essere e allora diventa trasparente, come il vetro, che ti permette di vedere le cose  al di là della cortina stessa, che tale non è più, perché si è dissolta e svanita nella risoluzione dell’arcano, che poc’anzi ti celava la vista del problema, che tale ora non è più.

E allora l’ho trovato il punto da dove iniziare, e allora via, attrezzi in mano e iniziamo.

Ora che ci penso, il cavalletto non è solo, sono due (non è come quello del pittore o della macchina fotografica). Non sarebbe potuto essere diversamente, altrimenti il piano non avrebbe potuto stare sollevato da terra e, sostanzialmente orizzontale. Il cavalletto è un termine quasi improprio, come le forbici, che sono sempre in coppia altrimenti non funzionano e  non servono.

E’ quest’idea della coppia e della mutualità che mi piace proprio; credo sia stata veramente una buona idea, questa del cavalletto, come direbbe il buon Giuseppe psicologo: “Le tue  non sono due parole, sono mille!”. Dentro ci stanno tante e tante metafore e occasioni per riflettere e pensare.

Allora guardo questi resti, sì perché uno è proprio molto malconcio: le gambe, una sorta di trapezio sbilenco, sono disarticolate, i punti di unione sono quasi del tutto consumati dal marciume, troppo tempo fuori e senza che abbia provveduto in questi anni, ad una protezione, magari anche solo una verniciatina, niente; i traversi, cioè quelle assi, che un tempo collegavano le due gambe conferendo stabilità al manufatto, sono anch’esse intaccate. Risultato che ora uno è totalmente disfatto e l’altro è sulla buona strada.

Non mi resta che iniziare a smontare il tutto.

Come prima cosa estraggo i chiodi e le viti – chissà poi perché ho usato quest’insieme eterogeneo di fissaggi?- mi accorgo che sono di varia misura, sezione e tipologia: chiodi a testa piatta, chiodi a spillo, chiodi con fusto in parte filettato[2], viti con testa a croce e con testa a taglio, lunghe, corte, piatte e fini.

Ma tutta questa ferramenteria ha un punto in comune: sono tutti ruggini e alcuni punti sono pure smangiati, fagocitati dal tempo e dalla corrosione.

Mi viene da pensare: “Eh è vero, non c’è nulla che resista per sempre su questo luogo che abitiamo. Diamine, persino la radioattività decade, certo, in qualche migliaio di anni, ma anche quella se ne va.

Basta avere pazienza, come quella che ho io ora.

Bene, ho tolto tutti i ferri e, ora, sono lì sul piano, tutti allineati. Caspita mi sembra un quadro di Mondrian, per via di quelle linee a figure geometriche, che gli steli ora formano sul piano e che, visti da qui, essi tracciano sul piano di legno vissuto.

Ora vien la parte più bella: i legni. Accidenti, ora che guardo bene, oltre a quelli molto rovinati, che finirò per accantonare (forse potrei farne pezzi artistici, il tempo è un magistrale scultore!), il tutto è una gamma di sezioni, di essenze che, nonostante sia trascorso molto tempo, si riescono ancora a distinguere: abete, pino… toh un pezzo di castagno, i risvolti per l’unione in basso in compensato marino…oh guarda, i traversi sono di larice (ecco perché sono ancora integri, infatti non a caso in Trentino, la tradizione vuole che il manto di copertura sia realizzato con particolari tegole in larice. Scandole, si chiamano scandole e da ogni cuore non se ne fanno più di due o tre; è la parte che contiene più resina, così durano di più e sono più impermeabili), ho provato a grattarne un po’ la superficie ed è riemerso quel bel colore fulvo. Sembra quasi di rivedere gli aghi che si incendiano di colore bruno nell’autunno.

Bene, ora sono tutti lì e divido i pezzi che hanno bisogno solo di un restauro della superficie, da quelli che hanno necessità di essere integrati, alcuni ahimè, dovranno essere rifatti e l’originale servirà come dima.

Ho contato i pezzi, ogni lato della gamba del  cavalletto (due per pezzo) consta di  quattro pezzi, in totale otto, poi ci sono due coppie di traversi di collegamento, altri quattro pezzi, infine il traverso centrale, che stabilizza questa sorta di impalcatura, uno sotto e uno sopra, quindi altri due, totale due più quattro più otto, per complessivi quattordici pezzi, che per due cavalletti fanno ventotto pezzi di legno. Se pensate che per ogni unione, tra un pezzo di legno e l’altro, ho usato almeno due chiodi e un paio di viti, sul tavolo  ho steso più di cento cilindretti di ferro sagomato, per l’esattezza centoquaranta (in alcuni punti ho leggermente abbondato o forse sono anche il prodotto di qualche mal riuscito – da un punto di vista formale- tentativo di restauro.

Morale: quello che fino ad un’ora fa era un agglomerato, quasi informe, di legno, ferro, bronzo e muschi e muffe di varia natura, ora è tutto ben ordinato e composto, che fa bella mostra di sè.

Sarei tentato di farne una mostra, del resto il loro compito l’hanno svolto egregiamente. Potrebbero meritarsi un definitivo riposo, ma non sarà così.

A questo punto vorrei fermarmi un pochino e riflettere sul significato di quest’operazione. A cosa ho pensato mentre smontavo e cercavo di estrarre chiodi e viti, evitando di rompere sia gli uni sia gli altri? Ma soprattutto dove andavano i miei pensieri mentre  cercavo  di salvaguardare quel poco che restava della materia lignea?

 

 

 

 

 

 

 

Esattamente ed esclusivamente al cavalletto.

Mi sono concentrato sull’operazione. Per giorni ho osservato quelle fibre asciugarsi, per giorni ho atteso che fosse giunto il momento giusto. Quando è arrivato ne ho colto l’attimo, e mi sono concentrato sul pezzo.

Certo, direte voi, è un operazione quasi banale. Quanti di voi hanno tolto i chiodi dalle assi senza tutta questa prosopopea …. Vero. E oggi, quanti non avrebbero esitato a scaraventare quelle quattro assi nel fuoco e a costruirne di nuovi, anzi,  basta andare in un brico-center qualsiasi e, con meno di dieci euro, te ne compri uno nuovo, di cavalletto intendo. Ma lì al Caselle, come vi ho già detto, si fanno i conti con la natura ed il luogo, che, come prima cosa, ti insegna l’amore per ogni cosa, animata o inanimata che sia.

Ogni chiodo tolto è un’immagine, ogni vite faticosamente svitata è una difficoltà superata, anche quando il chiodo si storce o si rompe, anche quando la vite si spanna e si strappa dentro l’anima del legno. Non tutto fila sempre liscio nella vita, anzi. Ogni elemento recuperato è un inno di conquista.

Forse non recupererò nulla, forse avrò il cuore di conservare quelle fibre in quella guisa: smontate, quasi appoggiate in una culla che le proteggerà e le ninnerà, di un canto dolce, lieve, come lieve dovrebbe essere quel qualcosa che sta dietro la porta invisibile, che ci capiterà di vedere una sola volta e, accidenti, di non poterlo neppure raccontare (forse, perché anche di questo non sono poi tanto sicuro!).

Ma avrò cura di conservare e rileggere i percorsi, che quel lavorio mi ha mostrato, quelle note che hanno farcito il tempo e che riecheggeranno sempre nella mia mente.

Guardo fuori, è un pettirosso, che canta qualcosa alla sua amata (immagino). Se ne sta lì, sul ramingo ramo della robinia, quella che viene decimata tra l’autunno e l’inizio della primavera di ogni anno, quella che fornisce legna che verrà depositata sul piano, quel piano che si appoggia al cavalletto, anzi sui cavalletti.

Dio Santo, lascerò quel ramo, per quest’anno; alcune cose non saranno le stesse, cambieranno, altre, come dice Musil, ritorneranno.

Ivan D’Agostini

[1] Forse anche Corona (lo scultore/romanziere) con il suo motto di sottrarre, ha copiato dal grande artista rinascimentale.

[2] Alcuni molto particolari li ho acquistati da un ferramenta simpaticissimo a Inveruno

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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