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Dall'archivio:

Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

Dopo un po’ di tempo … chiederete quanto? Un po’, del resto come si fa a definire un po’. Un po’ è un po’, e più di tanto non si può né allungare né restringere. Insomma, un po’ è un po’ e basta!

Allora, quindi, dopo un po’, ho deciso che sarebbe stata l’ora di iniziare ad intervenire.

Ho preparato la scena, in cantina, quella che vi ho poc’anzi accennato.

Il locale sta sotto, in proiezione esattamente verticale, rispetto al sedime di quell’ambiente, che noi chiamiamo la Veranda e che guarda a Nord, dove, di norma, si vede il Santuario di Santa Maria Maggiore, un edificio collocato a quasi mille metri di altezza. Guardando bene dietro la punta della chiesa, nascosta, c’è Milano. Dalla finestra grande principale a scorrere, (un giorno Vi racconterò di questa finestra, che merita alcune pagine, non fosse altro perché legata a vicende addirittura internazionali e che sanno di sociologia!) questa non è l’unica rappresentazione –una televisione naturale, così ebbe a definire mio suocero, il buon Remo.

Nelle giornate di vento, la corolla delle Alpi si erge maestosa all’orizzonte e in fondo spicca la vetta del massiccio del Bernina, in conclusione, un vero spettacolo. [1]

Io però, là sotto, tutto quello che vi ho raccontato, non lo vedo sempre: primo, perché di norma ci lavoro d’inverno e, a brevi intervalli, nelle stagioni di mezzo, ragion per cui tengo porte e finestrelle chiuse a causa del freddo; in secondo luogo, perché ci lavoro quasi sempre di sera, quando il sole ha spento la luce nel cielo (di giorno preferisco starmene fuori a godermi la natura). Ma anche se non lo vedo fisicamente, quello spettacolo, so che c’è e questo mi carica. E’ così che allora, lo spazio si dilata e questo piccolo laboratorio diventa universale e la moltitudine di attrezzi, che ho depositato nel corso di questi trent’anni, pare a volte decuplicarsi (spesso Laila mi consiglia di ordinare e di buttare qualcosa … o prima o poi non riuscirò più ad entrare io o altro) e prendere vita.

Ho un grande tavolo da lavoro, ovviamente in legno, cinque assi che poggiano su quattro robuste gambe realizzate con travi legno a forte spessore, il piano è a un buon metro da terra, così non devo curvare la schiena, in genere riesco a tenere la superficie abbastanza sgombra da cose, almeno sino alla prima delle mie innumerevoli lavorazioni. Lì ci faccio di tutto. Ceramiche, argille, cassetti, zanzariere, vasi, riparazioni di vario genere. Sono un tutto fare, un instancabile e un costante trituratore dell’aggiustare e del fare; da buon friulano ho ereditato dal papà una cosa: faso tuto mi (in dialetto veneto/friulano), cosa peraltro comune nella mia famiglia di allora e in quella di adesso (i miei figli, per certi versi, mi assomigliano, pur nella loro unicità e specificità). Una cosa sola non pratico: l’aggiustaggio dei motori, tranne qualche timida scivolata nel carburatore della taglia erba e nelle candele della motosega, del taglia siepi e del decespugliatore (vi sarete accorti della quantità e diversità di attrezzi che mi capita di utilizzare nel corso delle stagioni, per ovvie necessità di uso).

Dunque il tavolo è sgombro, o quasi, allora guardo finalmente questi pezzi asciutti e decido di intervenire, separerò.

 

A questo punto però vorrei essere un po’ (ancora?) cinico. Certo direte voi ora arriva finalmente il bello, ora sapremo e vedremo l’azione certosina e chirurgica che verrà messa in atto e … e no, cari miei, e no. Ancora un po’ di pazienza.

Eh sì perché qui al Caselle di pazienza c’è ne vuole tanta, anzi di più. C’è sempre qualche piccolo intoppo, che lì diventa grande se non corri subito ai ripari, e, allora, s’impara a tracciare la lista delle priorità, ma quella vera e non farlocca.

 

 

 

 

A volte mi stupisco, mentre viaggio in treno o in metropolitana –anche se io preferisco il tram, per via dei finestrini e della strada che gli corre sui fianchi- delle chiacchiere assurde, che spesso la gente si scambia: “Oh cara Anna devi proprio vedere quelle scarpe, è assolutamente necessario che tu le veda, dobbiamo proprio comprarne un paio per ognuna di noi” “Hai ragione Maria e dobbiamo fare in fretta, altrimenti a quel prezzo lì non le troviamo più.” “Quando usciamo dall’ufficio è la prima cosa da fare.” Mah, mi dico, ma non sarebbe meglio come prima cosa, magari, comprare da mangiare o qualche altra cosa? E non ci sono differenze: maschi, femmine, grandi, piccoli, ricchi e meno ricchi. Altro che fiera delle vanità.

Ivan D’Agostini

[1] Il mio buon amico Marcello qui potrebbe contare su un vero e proprio abaco di nuvole.

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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