Il celeberrimo mito, descritto da Ovidio nelle Metamorfosi, narra la vita di un fanciullo dalla nascita fino al ritorno alla natura, trasformato in fiore, un narciso appunto, affetto da una sproporzionata idea di sé, posseduto da un culto smodato della propria personalità e svuotato dell’incapacità di vedere altri che non se stesso, condannato da Nemesi ad innamorarsi della sua stessa immagine a tal punto che, specchiandosi in un corso d’acqua, capendo di non potersi innamorare di quel ragazzo riflesso si lasciò morire annegato.
Descrizione che ai tempi nostri ben si adatta a spiegare i meccanismi del “narcisismo digitale”. All’inizio era facebook che racchiudeva al suo interno utenti equamente divisi fra voyeurs ed être vus: che faccio? Guardo o vengo guardato? Era importante esserci, essere presenti in quei gruppi virtuali che rapidamente avevano soppiantato il “vecchio ed obsoleto” modo di comunicare tramite telefonate o conversazioni via skype. Si erano aperti nuovi equilibri di interazione fra persone e mondi differenti che però avevano cominciato a produrre un sordido meccanismo di alienazione del proprio essere e della propria esistenza.
Gli psicologi americani per primi, seguiti dai colleghi inglesi e poi nipponici, con personalità di spicco mondiali quali Jean M. Twenge e W. Keith Cambell hanno, cominciato già dal 2002 ad analizzare il fenomeno del narcisismo digitale sottoponendo a test specifici quella generazione di adolescenti ma anche di uomini adulti e donne che risultano collegati da quasi un decennio ai differenti servizi dei social network. I risultati sono apparsi abbastanza preoccupanti perché si è notato quanto il fenomeno porti ad un culto smodato di “prodotti” solo ed esclusivamente autoreferenziali, quasi sempre “brutte copie” di comportamenti o modelli di vita e di lavoro di personalità o figure prese come punto di riferimento dalle masse.
Giovani, donne e uomini tra i 15 e i 60 anni con la voglia di essere “popolari”, “personaggi pubblici”, “protagonisti”, postando foto, lasciando commenti, creando blog per contenuti e fama banalmente insignificanti, prefigurano un mondo dove possano lasciare traccia di sé, dove rimarrà un segno del loro“ essere bravi, essere belli, essere capaci, aver successo, altruisti, essere ricchi” e così via.
In questo ultimo periodo questo fenomeno si sta espandendo a macchia d’olio. Può essere forse accettabile per grandi personaggi pubblici che li usano come strumento di “marketing”. Poi ci sono migliaia di utenti che non hanno certamente guadagnato sul campo notorietà ma che diventano “leoni da tastiera” su fb, su whatsapp, su twitter. Foto normalmente fotoshoppate, risalenti ad almeno sette anni precedenti. L’importante è autocelebrarsi. Spessissimo questi “narcisi tecnologici” immortalano post di altri utenti, pensieri o riflessioni di personaggi che hanno fatto la storia, davanti ad una falsa vetrina, l’importante e che si veda che sia autocelebrativa.
In questo enorme numero di narcisi digitali, gli psicologi cominciano ad intravedere alcuni tratti distintivi dei disturbi della personalità quali per esempio mancanza di consapevolezza psicologica, con aspetti anche insight o ego sintonici, ipersensibilità a qualsiasi insulto o critica, certezza di essere più importanti di quanto lo siano realmente, difficoltà con l’empatia e a relazionarsi, negazione del rimorso, incapacità di vedere il mondo con gli occhi degli altri e soprattutto mancanza di obiettività e critica delle proprie azioni o atteggiamenti.
Abbiamo dovuto percorrere migliaia di anni di evoluzione per prendere confidenza con le interazioni umane, con i faccia a faccia, con il tramandarsi verbalmente dai più anziani ai più giovani intorno ad un falò di usi, costumi, racconti del vissuto, ma sono bastati appena due decenni per regredire in messaggi che un tempo erano chiamati feedback quotidiani (sono in ritardo, oggi salto il pasto, il capo mi tiene ancora in ufficio e stupidi smiles da bambini dell’asilo) semplici messaggi informali!
La comunicazione umana, quella del “mondo reale” ha mille altre sfaccettature, il tipo ed il timbro di voce, la postura, una pausa al posto giusto, il sorriso sincero, una risata, l’attesa.
Conversare dovrebbe essere una capacità che tutti dovremmo aver acquisito nel corso di millenni a differenza dell’evoluzione di altre specie terrestri, e, a conversare ci si dovrebbe già allenare da ragazzini.
Magari rispettandolo la regola ormai poco in voga, soprattutto nei programmi televisivi, dei turni fondamentali del diritto di parola e di replica. Conversare dovrebbe anche essere un’attività gratificante, rilassante, di intrattenimento rallentando la velocità quotidiana dell’esistenza umana. Dopotutto riguarda “chiacchiere” tra amici, magari in un incontro casuale in un bar, casuale quanto piacevole, uno scambio di battute cordiali che poi si protrae per ore, momenti di confidenza.
Riguarda anche il condividere informazioni ed idee, confrontare opinioni, raccontarsi avvenimenti e storie, entrare in contatto con qualcuno che fa bene e scalda il cuore, uno scambio aperto che presuppone anche un certo grado di vulnerabilità.
Certamente Narciso nell’era tecnologica si specchia ancora e in quantità maggiore, ma non più in uno stagno … si riflette sconsideratamente nel luccichio di un display di uno smartphone, di post quotidiani svenduti per qualche like. Annega Narciso nella mitologia ma annegano con lui tutti quegli utenti che alla fine si ritrovano tra “amici sconosciuti” che hanno ridotto il loro mondo ad una serie piccolissima di pixel digitali senza essere riusciti a vivere, a diventare, ad esistere e a trovare un posto nel mondo reale.
Laura G. D’Orso