I primi 60 anni di Gianni Bugno, tra Italo Calvino e Michelangelo- di Teo Parini

Ha fatto grande il nostro sport preferito e il ciclismo di rimando lo ha reso uno dei suoi miti più bell

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

Quelli che la facevano facile, una follia trattandosi di sport, erano soliti ripetere a quel tempo che, con tutto il talento del quale era stato dotato da Madre Natura, il suo palmares non è che fosse poi così ricco. Bontà loro, si immaginavano che si potesse vincere un Tour de France per diritto divino, quando l’avversario era forse il più grande corridore sulle tre settimane di corsa degli ultimi cinquant’anni, Miguel Indurain. O una Parigi – Roubaix, tanto cosa volevi che fosse mettere la bicicletta davanti a Museeuw sulle pietre coperte di fango? Un brutto vizio culturale, che italiano lo è sicuramente, quello di credere che per vincere sia sufficiente mettersi in testa di farlo. Ma non è così nemmeno alla sagra del paese, figuriamoci tra i satanassi del professionismo.

Gianni Bugno nato in Svizzera ma trapiantato in Lombardia, e per un po’ a Carpenzago nella nostra terra, è vero, ha potuto godere di doti naturali esageratamente sopra la media degli avversari, infatti la sua ruota è finita spesso e volentieri per varcare per prima la linea d’arrivo, altroché. Va bene, il Tour che ha finito per respingerlo anche nei suoi anni migliori, ma c’è davvero qualcuno che, anche con la ragione del poi, ha ancora la faccia tosta per criticare la sua carriera? Con un Giro d’Italia vinto indossando la maglia rosa dal primo all’ultimo giorno – e chi l’ha mai più rifatto? – due titoli di campione del mondo, la Sanremo scappando già sulla Cipressa, il Fiandre infilzando un triumvirato da pelle d’oca come quello composto da Museeuw, Ballerini e Tchmil, tappe a ripetizione nei GT con doppietta in cima all’Alpe d’Huez, tutte le classiche del calendario italiano, la San Sebastian e di sicuro ci stiamo dimenticano di altro, davvero c’è ancora qualcuno con l’indice alzato?

Uomo per tutti i terreni, il Gianni, con l’articolo determinativo davanti perché era sufficiente il nome per capire di chi si stesse parlando, faceva la voce grossa ovunque. In pianura come in salita, a cronometro o in volata. Da febbraio a ottobre, come si usava una volta, quando a computer di bordo, misuratori di dati clinici e diavolerie elettroniche varie, si facevano preferire sensazioni, ascolto del proprio corpo e improvvisazione. Tutto senza stagioni, che sembra, proprio perché lo è, tutta un’altra epoca. Ma per noi che il ciclismo non sarà mai una spulciata di almanacchi, Bugno è sì il plurivincitore di cui sopra, ci mancherebbe, ma è soprattutto inavvicinabile paradigma di una bellezza ciclistica mai più avvicinata. Gianni, in sella, fu opera d’arte, appagamento degli occhi e del palato, sincera invidia per chi provasse nel tempo libero a scalciare sulle pedivelle il più forte possibile. Nureyev che balla, McEnroe che gioca una volée di rovescio, Maradona che dribbla, Deborah Compagnoni che pennella una curva, Leonard che combina destro e sinistro, Campese che si invola verso la meta: siamo a questi livelli. La pedalata di chi faceva sembrare che la fatica si fosse scordata di lui, tanto fu intrisa di eleganza biomeccanica e di una leggerezza ingannatrice, perché capace di celare il vigore di quadricipiti inesausti e potenti.

Ci sono due tipi di campioni. Il primo è quello di coloro che, pur non godendo di una particolare forma di talento, suppliscono con abnegazione, che a ben pensarci è anch’essa una forma di talento, e cuore per scalare le gerarchie. La sensazione che emanano – errata, ovviamente, ma comprensibile – è quella di uomini proprio come noi aficionados, solo più determinati, tanto da far credere di poter essere come loro se solo lo si volesse. Il Diablo Chiappucci quale splendida nemesi del Gianni, per esempio. Lo dice uno che ha visceralmente venerato (e preferito) il varesino e pianto con lui sulla strada del Sestriere e della leggenda, proprio perché archetipo e protagonista di quelle belle storie da brutto anatroccolo che diventa cigno; storie di sport che suscitano nei tifosi un senso di appartenenza fortissimo. Il secondo, invece, è quello elitario dei predestinati, la nobiltà genetica. Li guardi e ti chiedi se anch’essi umani o di qualche genere superiore, tanto li si vede compiere gesti non replicabili da chicchessia. Il sottoinsieme del ciclismo che annovera tra le sue fila Coppi e Bartali, Merckx e Gimondi, Saronni e Pantani, Contador e Pogacar. E Gianni Bugno. Esserci dentro non significa affatto bypassare la necessità di lavoro e fatica che sono l’essenza del ciclismo, ma la specificità di questi campioni è proprio l’impressione che ne potrebbero fare a meno. Bugno, che il compianto e irripetibile cantore delle due ruote Gianni Mura ribattezzò “Vedremo” per quel suo modo ricorrente di rispondere agli intervistatori e per quel suo fare serioso ed enigmatico, fu, a scanso di equivoci, un professionista serissimo; uno che non ha mai saltato una sessione d’allenamento perché, prima di tutto, il ciclismo esige rispetto. Al pari delle fatiche paterne. “Papà lavora in lavanderia – diceva – e io lavoro in strada”. Che piova, faccia caldo o tiri vento. Roba da ciclisti.

Se oggi siamo qui a parlarne, è perché Gianni ha da poco fatto cifra tonda, quella dei sessant’anni, anche se il viso è sempre quello di un ragazzino, con Chronos che pare sia sempre benevolo con lui. Se la rivalità con Chiappucci ha inchiodato alla tivù milioni di spettatori e creato fazioni quasi calcistiche, è proprio il confronto di stili con il rivale, antitetico semmai ce ne fosse uno, che consente di sintetizzare con una breve chiosa quel che ha rappresentato Bugno per noi, quindi tantissimo. La prendiamo in prestito da un articolista della Gazzetta – che ringraziamo – perché brillante ed esemplificativa. Bugno, scrisse, è il gentiluomo che si veste di tutto punto senza lasciare alcun dettaglio al caso per inginocchiarsi di fronte a una donna, con il rischio gli possa rifiutare l’anello. Chiappucci, invece, è quello che tocca il culo a tutte, finché qualcuna ci sta. Similitudine che, probabilmente, gli strapperebbe un sorriso. Odiava le interviste, era allergico alle luci dei riflettori, non conosceva il significato della parola loquacità. Eppure diventò mito, mito di anni mitici, quelli della decade del novanta, che per il ciclismo hanno significato il punto apicale della grandeur degli albori, la sublimazione della pionieristica concezione di essere ciclisti, l’anticamera felice di stravolgimenti un po’ meno felici.

“Non ero forte in salita, non ero forte in volata, non ero forte neppure a cronometro. Mi arrangiavo un po’ dappertutto. Di certo non ero capace ad andare in bici. Cercavo solo di fare quello che fanno tutti: restare il più possibile in equilibrio per non cadere”. È l’attacco destabilizzante della sua prima autobiografia che, non ce ne vorrà, non corrispondendo affatto al vero esemplifica efficacemente il concetto di umiltà quale dote imprescindibile degli uomini realmente virtuosi. Disse a riguardo Italo Calvino: “Le imprese che si basano su di una tenacia interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino”. Gianni, in tal senso, silente e schivo per desossiribonucleico ha sempre fatto parlare le sue imprese. E se per Michelangelo “L’esperienza ha poco da insegnare se non viene vissuta con umiltà”, è proprio dai campioni come Bugno che non si smette mai di imparare. Ha fatto grande il nostro sport preferito e il ciclismo di rimando lo ha reso uno dei suoi miti più belli. Pertanto, agli auguri per il traguardo anagrafico e al calice sollevato, aggiungiamo un grazie financo commosso per il privilegio di averlo potuto ammirare così da vicino. Alla tua, Gianni.

■ Prima Pagina

Ultim'ora

Altre Storie

Pubblicità

Ultim'ora nazionali

Altre Storie

Pubblicità

contenuti dei partner