Giro d’Italia, il nobile gregariato di foggia colombiana di Dani Martinez

Primo tra gli umani

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Sega di Ala, salita impervia di un ecosistema mica tanto ospitale. L’anno è il 2021 e in maglia rosa c’è Egan Bernal, il predestinato. Il Giro d’Italia volge alla sua conclusione ma tra il colombiano e il primo successo nel GT italiano ci sono due insidie. La salita, appunto, ancora da farsi e un maledetto mal di schiena, la sua kryptonite. Sembra andare tutto per il meglio fino a quando l’ennesima rasoiata di Simon Yates, che quando è in stato di grazia fa divinamente il suo mestiere di grimpeur, spegne a Egan le lampadine. Crisi nera e improvvisa, la classica scoppola che scompagina piani e ambizioni. La pedalata si fa scomposta, il corpo si accartoccia sulla bici e gli occhi sono quelli di chi sa che sta per perdere tutto.

A meno che, nei paraggi, il destino non invii in soccorso uno come Dani Martinez. Professione gregario, ma di lusso, con qualità da primo della classe soprattutto nelle giornate di estrema fatica. Anch’esso colombiano e, ciò che più conta, compagno di team, Dani è il più lesto di tutti nello scorgere la difficoltà di Bernal, al punto che immediatamente si lascia sfilare dai battistrada per mettersi a fare da scudo e locomotiva per il capitano alla deriva. Quello che ne viene fuori è uno dei momenti ciclistici più iconici di ogni epoca: la sublimazione dell’arte del gregariato, somma di fedeltà, forza, dedizione e umanità. Martinez potrebbe tranquillamente vincere quella tappa, considerato come girano le sue gambe, ma non è tipo da disattendere i doveri di squadra e si mette al servizio del compagno il cui sguardo comincia a rinfrancarsi.

“Sette minuti, Egan”, urla Martinez, prima di affiancarlo agitando il pugno chiuso ad un palmo dal suo naso, quasi a volergli strappare dal serbatoio le ultime energie. “Ancora sette minuti”, ribadisce Martinez, che se lo caricherebbe sulla canna della bicicletta se solo potesse. Non è un miracolo ma la logica di uno sport meraviglioso, fatto da gente strana perché amante della sofferenza ma sempre un po’ speciale, se Bernal, ormai in piedi sul cornicione, ritrovi vigore. Quel che basta per salvare un Giro prima dominato e poi quasi perso. Dani Martinez, uomo chiamato provvidenza, quel giorno deve aver capito due cose. Una è la competenza del popolo del ciclismo che ha tributato il suo operato alla stregua di una vittoria. L’altra è che una chance di correre una corsa da tre settimane con i gradi del capitano se la meriterebbe tutta.

Per farlo, Dani sceglie di cambiare aria, perché in casa Ineos sono tanti i campioni che scalpitano, e porta i suoi servigi alla Bora, compagine che gli promette un Giro d’Italia da protagonista. Il risultato è la storia di questi giorni. Una storia rosa che racconta sì di un Tadej Pogacar alieno e che rispetto a tutti gli altri fa un altro sport ma anche di un Martinez meritatamente primo tra gli umani, secondo della classifica generale nonché l’unico, con il nostro Tiberi, che nei limiti delle possibilità abbia provato a resistere all’epocale sloveno. Tre settimane di concretezza granitica per mettersi alle spalle un cagnaccio che, proprio della concretezza, è docente universitario. Geraint Thomas, il gallese che non cede mai. Martinez si conferma, così, efficace a cronometro, tenace in salita, scaltro nello stare lontano dai guai e tatticamente preparato.

A tre anni dal trionfo di Bernal, quello anche un po’ suo, Dani mette in bacheca il risultato di maggior prestigio della carriera, un podio rosa che rende giustizia alle qualità di un corridore mai considerato fino in fondo da addetti ai lavori e tifosi. Forse perché poco appariscente, figlio di un ciclismo umile e rispettoso che fa da contraltare all’esuberanza arrembante dei nuovi fenomeni. Martinez, pertanto, da questo Giro torna a casa con la conferma di non essere solo un buonissimo corridore di giornata ma di possedere una cilindrata consona all’impegno asfissiante e reiterato di un GT. Con l’età ancora dalla sua parte, sono solo ventotto le primavere, c’è da credere che, forte di questa esperienza, possa crescere ancora di livello per provare a ridurre il gap che lo separa dagli invincibili Pogacar e Vingegaard e per contendere ai vari Roglic, Evenepoel, Carapaz, Yates e chi verrà, anche il podio del Tour de France.

Dal nobile gregariato al podio finale di Roma, Dani Martinez, rinverdendo la grande tradizione degli uomini d’alta quota colombiani, chiude il suo personalissimo cerchio. Perché lo sport, e il ciclismo non fa certo eccezione, prima o poi trova sempre il modo per ringraziare i suoi protagonisti più valorosi. Quelli dei ‘sette minuti’ come Dani, per esempio.

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