Gimbo Tamberi, tra grande salto.. e grande Slam- di Teo Parini

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Gianmarco Tamberi, anche detto Gimbo o l’half shave, era già, ben prima di ieri sera, uno degli sportivi italiani più importanti della nostra storia, come Coppi, Tomba o Maldini. Uno nella cerchia di quelli senza tempo.

A maggior ragione adesso, all’indomani della chiusura del suo personalissimo cerchio grazie al conseguimento dell’ultimo tassello ancora mancante nella collezione privata del saltatore azzurro: il titolo di campione del mondo all’aperto. Budapest 2023, quindi, ha colmato la lacuna. Una bacheca, la sua, che annovera, appunto, i Mondiali e gli Europei sia indoor che outdoor, le Olimpiadi e la Diamond League. Se esistesse anche nell’atletica, come nel tennis o nel golf, staremmo parlando del Grande Slam, l’esclusività fatta sport.

Gimbo è un tipo che non passa inosservato, estroverso e guascone lo è di sicuro, e non a tutti può risultare particolarmente simpatico. A noi, per esempio, ma chissenefrega. Anche le sue esternazioni pubbliche non sono sempre felici, ma è il prezzo che si paga volentieri a chi ha il pregio di rigettare banalità e omologazione in un mondo che di personaggi eterodiretti ne conta fin troppi. Infelici, dunque, come la sciagurata volta in cui ebbe modo di definire Alex Schwazer la “vergogna d’Italia” per la presunta assunzione di sostanze dopanti, salvo poi essere costretto a rimangiarsi parola per parola quando con imperdonabile ritardo fu chiaro a tutti che il formidabile marciatore altoatesino era rimasto vittima di uno sporco complotto. Pure sull’atteggiamento in pedana, a fare i pignoli, ci sarebbe da sindacare. L’urlo e l’esultanza scomposta che ha fatto seguito all’errore decisivo dello statunitense Harrison, il momento che ha ufficializzato la medaglia d’oro sul collo dell’azzurro, non è proprio quel che si dice l’atteggiamento più sportivo di questo mondo – il fair play così come lo stile, del resto, sono un’altra cosa – ma tutto ciò è ormai parte inscindibile nonché cifra stilistica di un ragazzo dal respiro planetario che esige di essere unico e riconoscibile. Riuscendoci, peraltro, benissimo, intanto a suon di vittorie.

Tornando al lato prettamente sportivo, perché va bene filosofeggiare un po’ sul contorno ma resta la cosa che più ci interessa, Tamberi, tra tante doti generosamente concesse da madre natura e sviluppate con fatica e abnegazione, possiede quella che fa da spartiacque tra essere un grande atleta, e ce ne sono diversi, e un campionissimo della disciplina, quindi rarità. La capacità di esprimere il suo lato migliore quando più conta; una delle possibili, forse la più azzeccata, definizione di talento. C’è chi sotto pressione si squaglia come neve al sole e c’è chi, come Tamberi, che con puntati addosso gli occhi del mondo innesta la marcia più alta. Non è un caso, ancora meno trattasi di fortuna, è solo talento, qualcosa che non si può allenare. La stessa virtù che, per esempio, consente a Djokovic di alzare a dismisura il suo livello di gioco quando deve fronteggiare un match point a sfavore o, parlando di basket, ciò che garantiva a uno come Basile, per chi se lo ricorda, di mettere a segno la tripla “ignorante” della vittoria quando anche il cronometro sembrava cancellare ogni speranza.
Gimbo, nell’occasione più importante della stagione, ha piazzato un salto a due metri e trentasei centimetri, una misura che nel corso di un anno piuttosto tribolato, anche per via della separazione sportiva dal papà-allenatore, non aveva ancora raggiunto e non stupisce affatto, per quanto appena detto, che ci sia riuscito proprio ieri nel corso della finale mondiale.

Con gli avversari, fatta eccezione per un mito fatto della sua stessa pasta come Barshim che merita un discorso a sé, incapaci di riproporre quanto di buono esibito di recente su palcoscenici meno prestigiosi. Insomma, ci sono saltatori che possono vantare un record fissato ad una quota migliore di quella mai raggiunta in carriera dall’italiano – che la barriera iconica di 2,40 metri, a differenza di altri rivali, non l’ha mai scavalcata – ma che se c’è in ballo l’oro è quasi certo che di Tamberi, nella corsa verso la gloria, riescano a vedere solo la targa che inesorabilmente si allontana. Tra l’altro, questa vittoria è anche una bella risposta stampata in faccia a quelli che hanno pensato che l’amico Barshim (ieri battuto sul campo), accettando di dividere il gradino più alto del podio olimpico rinunciando allo spareggio e alla possibile vittoria in solitaria, gli avesse fatto un regalo. Tamberi in versione on fire, lo si è visto ancora una volta, è una brutta gatta da pelare anche per l’immenso qatariota, altro che regalo.

Un piccolo back in the days. Osservando la classifica di ieri, e le altezze scavalcate dagli atleti che oggi costituiscono il gotha della disciplina, non possiamo esimerci dal tributare il più forte saltatore in alto mai ammirato su una pedana: Javier Sotomayor. L’uomo che galleggiava nell’aria come se la gravità si fosse dimenticata di lui che ormai trent’anni fa, un’eternità parlando di sport, nella leggendaria notte di Salamanca stabilì il record mondiale nel salto in alto che tuttora sopravvive e, anzi, pare essere sempre più irraggiungibile. Nonostante tre decadi di sviluppo scientifico e di conoscenze in ambito biomeccanico, ma non solo, sempre più approfondite. Un salto, quello del cubano, che serate come quella di Budapest fanno apparire, se possibile, ancora più straordinario.

Gianmarco Tamberi, a trentuno anni e con la possibilità anagrafica di togliersi ancora delle soddisfazioni prima di appendere le scarpette al chiodo, entra definitivamente e dalla porta principale nell’Olimpo all-time dell’atletica leggera. Averlo per connazionale è quel che si dice uno sfacciato colpo di fortuna. Complimenti, Gimbo, sempre più su, dove volano solo le aquile.

di Teo Parini

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