Futuro, scuola e intelligenza artificiale: siamo diventati desueti (o no)? Di Silvano Brugnerotto

Una preziosa riflessione del docente abbiatense dell'istituto Bachelet

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Nel 1950 Alan Turing ideò il famoso test orientato a valutare se una macchina potesse simulare l’intelligenza umana. Si trattava del famoso “gioco dell’imitazione”, nel quale una persona isolata in una stanza poneva delle domande a due altri soggetti posti in altro ambiente, cercando di capire, attraverso le loro risposte, chi fosse umano e chi una macchina. Se la persona finiva per non rilevare differenze o addirittura per scambiare l’identità dei soggetti, allora la macchina avrebbe potuto essere considerata intelligente.

Col passare degli anni il test di Turing è stato più volte riformulato, sia perché il concetto di intelligenza è stato via via riconsiderato, sia perché l’avanzamento tecnologico tendeva a superare il test attraverso algoritmi che, per quanto complessi, non potevano essere considerati “pensanti”.

Allo stato attuale il test di Turing pare essere totalmente obsoleto perché la domanda, come ci ricorda il libro “Sovrumano” di Nello Cristianini, non è più “se le macchine possono essere intelligenti, ma se possono eguagliarci e superarci”. Attraverso un’acuta analisi tecnico-storiografica l’autore ripercorre l’evoluzione delle macchine fino alla comparsa dell’odierna intelligenza artificiale, dimostrando come la continua competizione fra “addestratori” e “valutatori” (paragonabile a quella fra crittografi e crittoanalisti di codici) sta imprimendo alle macchine uno sviluppo di natura esponenziale.

Esistono oggi modelli informatici addestrati su miliardi di dati postati sul web, in grado di “argomentare” su ogni ambito dello scibile umano, di riassumere testi, di interpretare immagini, di tradurre da ogni lingua del mondo e di fare tantissimo altro: Chat GPT è solo il più noto di questi modelli, ma non il più evoluto.

Cristianini ci segnala che non siamo lontani dal raggiungere l’AGI (Artificial General Intelligence), forma di intelligenza artificiale “capace di risolvere gli stessi compiti cognitivi di un essere umano, allo stesso livello di competenza”. E che, all’orizzonte di un futuro non troppo lontano, si profila l’ASI (Artificial Super Intelligence), ipotetica forma di intelligenza “capace di superare gli esseri umani nella soluzione di compiti cognitivi”. L’ASI, che dalla fantascienza potrebbe approdare alla realtà, sarà forse in grado di comprendere aspetti del mondo che a noi appaiono incomprensibili, elaborando concetti al di là della nostra portata.

Sono visioni vertiginose, quelle che riguardano il nostro futuro prossimo e lontano. Ma, a proposito di sviluppo intellettivo, è utile parlare di ciò che avviene nel primo dei nostri enti di formazione umana, la scuola. Da anni, ormai, la scuola è preda di una visione neoliberista tesa a smantellare l’acquisizione delle conoscenze in favore delle cosiddette “competenze”, allineate ad interessi di natura economico-aziendale. La “certificazione delle competenze”, soprattutto plasmata sul credo laico dell’innovazione digitale, esprime un senso di modernità che in realtà non esiste: un’indagine dell’Ocse del 2024 indica che in Italia un terzo della popolazione è costituita da analfabeti funzionali, cioè da persone che sanno leggere un testo ma non ne comprendono il significato, che non hanno dimestichezza con le soluzioni logiche e che non intendono un discorso complesso.

La scuola italiana rispecchia perfettamente questa situazione, della quale evidentemente è la causa: è riuscita negli anni a diminuire la dispersione scolastica (dal14,5 % di giovani che abbandonavano gli studi sette anni fa, siamo scesi al 9,8% nel 2024), ma i risultati delle prove Invalsi del 2025 indicano chiaramente forti carenze in italiano (solo il 50% degli studenti raggiunge la sufficienza) e in matematica (meno della metà). La maggior parte di questi ragazzi (quasi il 90%) mostra invece buona padronanza nell’utilizzo del digitale, e da questo dato potremmo ricondurci al discorso iniziale sulla tecnologia complessa.

I cosiddetti “nativi digitali” vivono in un mondo completamente diverso da quello sperimentato dai cosiddetti “boomer”: già dopo pochi anni di vita sanno manipolare tablet e smartphone, scrollare migliaia di video nei social e giocare in rete. Hanno acquisito facoltà tecniche molto più avanzate di quelle delle vecchie generazioni, smarrendo però quelle specificamente inerenti al mondo fisico: le relazioni interpersonali, anzitutto, ma anche un’idea di tempo condiviso, il gusto del bello permanente e un concetto di formazione dell’identità legato a percorsi narrativi non frammentati. Quando i dati statistici rilevano una buona “competenza digitale” degli studenti, dunque, fotografano semplicemente l’uso dello strumento, non il contenuto veicolato dallo strumento.

Se oggi prendessimo uno studente fra quelli che non hanno superato la soglia degli Invalsi e lo sottoponessimo al test di Turing, quale sarebbe il risultato? Riuscirebbe l’utente umano a distinguere fra la macchina e lo studente? La risposta è sicuramente si, ma non nel senso per cui il test era nato: lo riconoscerebbe perché la macchina si rivelerebbe molto più intelligente dello studente. Questo accadrebbe, in parte, perché le macchine contemporanee sono infinitamente più avanzate di quelle dell’epoca di Turing, ma anche perché lo studente risulterebbe culturalmente più carente rispetto a quello di alcuni decenni fa; per cui, sotto l’aspetto delle conoscenze generali, apparirebbe deficitario. Inoltre, il test dovrebbe durare non più di sette minuti, che è la soglia media dell’attenzione di un nativo digitale.

La scuola ha dunque intrapreso un cammino discutibile, perché ridurre il sapere al format delle competenze significa deprimere la capacità critica, che invece necessita di spazi aperti, di continui momenti di confronto e di una visione multidisciplinare. Le competenze digitali intese come unica innovazione possibile finiranno, da un lato, per ridurre la scuola a mero ente certificatore per aziende e agenzie private, e dall’altro per proporre esperienze tutt’altro che inedite, essendo gli studenti, fin dalla nascita, immersi nell’universo virtuale.

L’intelligenza artificiale in grado di pareggiare i livelli di competenza umana (AGI) è sempre più vicina, ma la sfumata definizione di “intelligenza” fa apparire lo scenario futuro meno cupo. La misurazione univoca dell’intelligenza basata sul quoziente QI pare ormai superata, perché studi successivi (soprattutto quello dello psicologo Howard Gardner, che individua le “intelligenze multiple”) hanno dimostrato che l’intelligenza può declinarsi in abilità cognitive specifiche molto diverse fra loro. Cosicché è arduo stilare una classifica fra l’intelligenza logico-matematica di Einstein, quella musicale di Mozart o quella corporea-cinestetica di Maradona. Ecco dunque che la scuola dovrebbe stimolare la diversità, il dialogo fra le discipline, l’attività laboratoriale, il teatro; dovrebbe proporre, in altre parole, attività fisiche e mentali che siano alternative all’universo virtuale. Sarebbe questa, non la rincorsa settoriale al digitale, la vera innovazione della didattica.

La scuola delle competenze risulta superata per definizione: ciò in cui siamo competenti oggi risulterà obsoleto domani. E dopodomani le aziende che vorranno realizzare il massimo dei profitti col minimo dello sforzo useranno ciò che è quasi a portata di mano: le macchine competenti.
E allora la scuola dovrebbe liberarsi prima possibile della zavorra ideologica delle competenze, identificando e valorizzando le intelligenze etiche, filosofiche e creative; perché è proprio durante l’adolescenza che maturiamo come persone e come appartenenti ad una comunità. La scuola dovrebbe narrare, declinandola nella visione della contemporaneità, la grande avventura della conoscenza.

Silvano Brugnerotto
Docente di Storia dell’Arte presso IIS Bachelet di Abbiategrasso

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