Elogio di Claudio Ranieri, che ci ha insegnato a non sentirci mai indispensabili

Storia calcistica di un uomo perbene

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Nella settimana del maestro Gasperini, a cui la vittoria in Europa League non ha aggiunto ovviamente nulla a quanto fosse già doveroso sapere occupandosi di soccer, un altro allenatore di quelli catalogati come ‘perdenti’ dai tifosi resi miopi dalla propaganda sportiva – quindi, nella realtà, tecnici valorosi – lancia un segnale. L’ultimo della sua interminabile carriera. Claudio Ranieri da Roma, classe ’51, dopo 912 partite dirette dalla panchina ha detto che può bastare così. Aver salvato il Cagliari nell’anno della scomparsa di Gigi Riva, dopo averlo riportato in serie A trecentosessantacinque giorni prima, resterà la sua impresa finale. Perché è di ciò che si tratta, alla faccia di chi continua a considerare tali le Champions League vinte con i petrodollari che cadono a pioggia sulla testa.

L’acme. Ranieri, professione giramondo con esperienze professionali praticamente ovunque, approda al Leicester nel 2015 quando l’età è già oltre la sessantina. Nella terra d’Albione, alla notizia se la ridono un po’ tutti. Gary Lineker, per esempio, che è un’istituzione in patria la definisce una “scelta poco opportuna” e, a rileggere le esternazioni dell’epoca, ci si accorge che la sua non è nemmeno la sentenza peggiore. Ranieri ha la pelle dura di chi ne ha già viste tante e non se ne cura più di tanto, nemmeno quando gli danno del bollito per essere rimasto seduto durante una conferenza stampa. Come finirà la cavalcata del suo Leicester è cosa nota e ora sono in tanti che la definiscono alla stregua della favola calcistica più grande di sempre. Mica male per uno che il presidente della federazione greca, solo qualche mese prima, riuscì a etichettarlo come la scelta più infelice della storia.

Il Leicester, a bocce ferme era quotato cinquemila contro uno che, nel linguaggio dei bookmakers, significa avere le stesse possibilità di vittoria che uno come Fassino ha di mettere ko Tyson sul ring. Invece, il 2 maggio del 2016 la matematica sancisce la certezza della conquista della prima Premier League nella storia ultracentenaria del club. Assicurato il diritto a partecipare, sempre per la prima volta, alla massima competizione europea, la Champions, Ranieri si aggiudica anche il primato del girone staccando il biglietto per gli ottavi di finale, sempre a proposito di favole. Qualche tempo dopo, i tifosi delusi dai successori che come spesso accade subentrano con scarso tempismo, arrivano a firmare una petizione per dotare il piazzale antistante lo stadio di una statua in onore proprio del condottiero Claudio, quello bollito. A futura memoria di una stagione che, salvo stravolgimenti epocali, sarà irripetibile.

Ranieri appartiene al ristretto club di quegli allenatori che non hanno la pretesa di inventare nulla in un mondo, quello del calcio, che resta di semplice comprensione. Un pregio enorme, considerata la pletora di sedicenti santoni che senza soluzione di continuità fanno irruzione sulla scena carichi di aspettative e di piani bellicosi, salvo poi finire inghiottiti dai rispettivi pensieri strampalati. Il tecnico romano, invece, adotta un principio semplice: in porta ci va quello con i guanti, a sinistra ci si mette il mancino e quello robusto finisce a fare a sportellate nell’area avversaria. Sarà pure lapalissiano – ma per molti non lo è – ma ciò significa ottenere dal materiale umano disponibile il rendimento migliore possibile. A ben pensarci, il motivo per il quale un presidente debba pagare qualcuno per stare in panchina.

En passant, Ranieri è colui che prende il Napoli del dopo Maradona, e non serve specificare la complessità di una situazione non solo calcistica, e chiude quarto, gioca la Coppa UEFA (allora si chiamava così) e viene stoppato solo dal PSG di Weah, mica di Messi. A Firenze, prende per mano la squadra in serie B e, tempo tre anni, vince la Coppa Italia, la Supercoppa e fa semifinale nella Coppa delle Coppe che fu. Il Valencia, sprofondato all’ultimo posto in classifica, lo chiama come la più classica delle mosse della disperazione. Prima una comoda salvezza, poi un quarto posto e, infine, la Coppa del Rey messa in bacheca. Quando Abramovich lo conferma alla guida del Chelsea, il risultato è il secondo posto in Premier e la semifinale in Champions League. Le basi per i futuri successi del club. Dopo una Supercoppa, questa volta europea, di ritorno al Valencia, pensa bene di prendere un Parma malandato e di garantirgli la permanenza nella massima serie con il lavoro che non può passare inosservato ai dirigenti della Juventus che si assicurano i suoi servigi.

L’esperienza torinese non è particolarmente significativa ma fa da preludio all’approdo alla Roma, la squadra che tifa da sempre. Chiude secondo ad un millimetro dallo scudetto. E se all’Inter riescono nell’impresa di preferirgli Stramaccioni, al Monaco ancora si leccano i baffi perché Ranieri, dal pantano della Ligue 2, risale la china fino al secondo posto in Ligue 1, anticipato solo dagli sperperi del PSG. Detto della Grecia, una parentesi da cancellare, il resto è gloria imperitura, quella del Leicester City. Transitato per il Watford, la storia recente significa salvezza, denominatore comune degli ultimi scampoli di carriera. Quella garantita ad una delle peggiori Sampdoria di sempre e, questione di qualche giorno fa, al Cagliari.

A quest’uomo per bene, il cui peggior difetto (si fa per dire) è sempre quello di non abbandonarsi ad inutili proclami e di non conoscere la disdicevole arte dell’imbonimento, dev’essere riservato un sincero grazie. Per averci ricordato a più riprese che a sentirsi indispensabili, e non solo nel calcio, si commette un gravissimo errore.
Buona pensione, Mister.

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