Abbiamo deciso di pubblicare integralmente i discorsi pronunciati ieri nel Senato della Repubblica da Liliana Segre e dal presidente neo eletto Ignazio La Russa. Buona lettura.
IL DISCORSO DI LILIANA SEGRE
Rivolgo il più caloroso saluto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a quest’Aula. Con rispetto, rivolgo il mio pensiero a Papa Francesco. Certa di interpretare i sentimenti di tutta l’Assemblea, desidero indirizzare al Presidente Emerito Giorgio Napolitano, che non ha potuto presiedere la seduta odierna, i più fervidi auguri e la speranza di vederlo ritornare presto ristabilito in Senato. Il Presidente Napolitano mi incarica di condividere con voi queste sue parole: “Desidero esprimere a tutte le senatrici ed i senatori, di vecchia e nuova nomina, i migliori auguri di buon lavoro, al servizio esclusivo del nostro Paese e dell’istituzione parlamentare ai quali ho dedicato larga parte della mia vita”. Rivolgo ovviamente anch’io un saluto particolarmente caloroso a tutte le nuove Colleghe e a tutti i nuovi Colleghi, che immagino sopraffatti dal pensiero della responsabilità che li attende e dalla austera solennità di quest’aula, così come fu per me quando vi entrai per la prima volta in punta di piedi. Come da consuetudine vorrei però anche esprimere alcune brevi considerazioni personali. Incombe su tutti noi in queste settimane l’atmosfera agghiacciante della guerra tornata nella nostra Europa, vicino a noi, con tutto il suo carico di morte, distruzione, crudeltà, terrore…una follia senza fine. Mi unisco alle parole puntuali del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “La pace è urgente e necessaria. La via per ricostruirla passa da un ristabilimento della verità, del diritto internazionale, della libertà del popolo ucraino”.
“Oggi sono particolarmente emozionata di fronte al ruolo che in questa giornata la sorte mi riserva. In questo mese di ottobre nel quale cade il centenario della Marcia su Roma, che dette inizio alla dittatura fascista, tocca proprio ad una come me assumere momentaneamente la presidenza di questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica. Ed il valore simbolico di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente perché, vedete, ai miei tempi la scuola iniziava in ottobre; ed è impossibile per me non provare una sorta di vertigine ricordando che quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco delle scuole elementari, oggi si trova per uno strano destino addirittura sul banco più prestigioso del Senato”.
“Il Senato della diciannovesima legislatura è un’istituzione profondamente rinnovata, non solo negli equilibri politici e nelle persone degli eletti, non solo perché per la prima volta hanno potuto votare anche per questa Camera i giovani dai 18 ai 25 anni, ma soprattutto perché per la prima volta gli eletti sono ridotti a 200. L’appartenenza ad un così rarefatto consesso non può che accrescere in tutti noi la consapevolezza che il Paese ci guarda, che grandi sono le nostre responsabilità ma al tempo stesso grandi le opportunità di dare l’esempio. Dare l’esempio non vuol dire solo fare il nostro semplice dovere, cioè adempiere al nostro ufficio con ‘disciplina e onore’, impegnarsi per servire le istituzioni e non per servirsi di esse. Potremmo anche concederci il piacere di lasciare fuori da questa assemblea la politica urlata, che tanto ha contribuito a far crescere la disaffezione dal voto, interpretando invece una politica ‘alta’ e nobile, che senza nulla togliere alla fermezza dei diversi convincimenti, dia prova di rispetto per gli avversari, si apra sinceramente all’ascolto, si esprima con gentilezza, perfino con mitezza”.
Le elezioni del 25 settembre hanno visto, come è giusto che sia, una vivace competizione tra i diversi schieramenti che hanno presentato al Paese programmi alternativi e visioni spesso contrapposte. E il popolo ha deciso. È l’essenza della democrazia. La maggioranza uscita dalle urne ha il diritto-dovere di governare; le minoranze hanno il compito altrettanto fondamentale di fare opposizione. Comune a tutti deve essere l’imperativo di preservare le Istituzioni della Repubblica, che sono di tutti, che non sono proprietà di nessuno, che devono operare nell’interesse del Paese, che devono garantire tutte le parti.
Le grandi democrazie mature dimostrano di essere tali se, al di sopra delle divisioni partitiche e dell’esercizio dei diversi ruoli, sanno ritrovarsi unite in un nucleo essenziale di valori condivisi, di istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti. In Italia il principale ancoraggio attorno al quale deve manifestarsi l’unità del nostro popolo è la Costituzione Repubblicana, che come disse Piero Calamandrei non è un pezzo di carta, ma è il testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel settembre del 1943 ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti. Il popolo italiano ha sempre dimostrato un grande attaccamento alla sua Costituzione, l’ha sempre sentita amica. In ogni occasione in cui sono stati interpellati, i cittadini hanno sempre scelto di difenderla, perché da essa si sono sentiti difesi.
E anche quando il Parlamento non ha saputo rispondere alla richiesta di intervenire su normative non conformi ai principi costituzionali – e purtroppo questo è accaduto spesso – la nostra Carta fondamentale ha consentito comunque alla Corte Costituzionale ed alla magistratura di svolgere un prezioso lavoro di applicazione giurisprudenziale, facendo sempre evolvere il diritto. Naturalmente anche la Costituzione è perfettibile e può essere emendata (come essa stessa prevede all’art. 138), ma consentitemi di osservare che se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione – peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi – fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice.
Il pensiero corre inevitabilmente all’art. 3, nel quale i padri e le madri costituenti non si accontentarono di bandire quelle discriminazioni basate su “sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”, che erano state l’essenza dell’ancien regime. Essi vollero anche lasciare un compito perpetuo alla ‘Repubblica’: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Non è poesia e non è utopia: è la stella polare che dovrebbe guidarci tutti, anche se abbiamo programmi diversi per seguirla: rimuovere quegli ostacoli! Le grandi nazioni, poi, dimostrano di essere tali anche riconoscendosi coralmente nelle festività civili, ritrovandosi affratellate attorno alle ricorrenze scolpite nel grande libro della storia patria.
Perché non dovrebbe essere così anche per il popolo italiano? Perché mai dovrebbero essere vissute come date “divisive”, anziché con autentico spirito repubblicano, il 25 Aprile festa della Liberazione, il 1° Maggio festa del lavoro, il 2 Giugno festa della Repubblica? Anche su questo tema della piena condivisione delle feste nazionali, delle date che scandiscono un patto tra le generazioni, tra memoria e futuro, grande potrebbe essere il valore dell’esempio, di gesti nuovi e magari inattesi. Altro terreno sul quale è auspicabile il superamento degli steccati e l’assunzione di una comune responsabilità è quello della lotta contro la diffusione del linguaggio dell’odio, contro l’imbarbarimento del dibattito pubblico, contro la violenza dei pregiudizi e delle discriminazioni.
Permettetemi di ricordare un precedente virtuoso: nella passata legislatura i lavori della “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza” si sono conclusi con l’approvazione all’unanimità di un documento di indirizzo. Segno di una consapevolezza e di una volontà trasversali agli schieramenti politici, che è essenziale permangano.
Concludo con due auspici.
Mi auguro che la nuova legislatura veda un impegno concorde di tutti i membri di questa assemblea per tenere alto il prestigio del Senato, tutelare in modo sostanziale le sue prerogative, riaffermare nei fatti e non a parole la centralità del Parlamento. Da molto tempo viene lamentata da più parti una deriva, una mortificazione del ruolo del potere legislativo a causa dell’abuso della decretazione d’urgenza e del ricorso al voto di fiducia. E le gravi emergenze che hanno caratterizzato gli ultimi anni non potevano che aggravare la tendenza. Nella mia ingenuità di madre di famiglia, ma anche secondo un mio fermo convincimento, credo che occorra interrompere la lunga serie di errori del passato e per questo basterebbe che la maggioranza si ricordasse degli abusi che denunciava da parte dei governi quando era minoranza, e che le minoranze si ricordassero degli eccessi che imputavano alle opposizioni quando erano loro a governare.
Una sana e leale collaborazione istituzionale, senza nulla togliere alla fisiologica distinzione dei ruoli, consentirebbe di riportare la gran parte della produzione legislativa nel suo alveo naturale, garantendo al tempo stesso tempi certi per le votazioni. Auspico, infine, che tutto il Parlamento, con unità di intenti, sappia mettere in campo in collaborazione col Governo un impegno straordinario e urgentissimo per rispondere al grido di dolore che giunge da tante famiglie e da tante imprese che si dibattono sotto i colpi dell’inflazione e dell’eccezionale impennata dei costi dell’energia, che vedono un futuro nero, che temono che diseguaglianze e ingiustizie si dilatino ulteriormente anziché ridursi. In questo senso avremo sempre al nostro fianco l’Unione Europea con i suoi valori e la concreta solidarietà di cui si è mostrata capace negli ultimi anni di grave crisi sanitaria e sociale. Non c’è un momento da perdere: dalle istituzioni democratiche deve venire il segnale chiaro che nessuno verrà lasciato solo, prima che la paura e la rabbia possano raggiungere i livelli di guardia e tracimare.
Senatrici e Senatori, cari Colleghi, buon lavoro!
IL DISCORSO DEL NEO PRESIDENTE IGNAZIO LA RUSSA
Mi spiace tenervi ancora in Aula, dopo una mattinata di lavoro, ma la prassi vuole che il Presidente faccia subito un discorso. Non ci crederete, ma non l’ho preparato minimamente. Avevo una bozza, che cercherò di ripercorrere. Ma certamente, prima ancora della bozza e dei ringraziamenti, che sono normali, abituali e sentiti, voglio ringraziare tutti quelli che mi hanno votato, quelli che non mi hanno votato, quelli che si sono astenuti e – se mi consentite – quelli che mi hanno votato pur non facendo parte della maggioranza di centro-destra. Grazie davvero di cuore.
Il ringraziamento e il pensiero deferente vanno naturalmente al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ho conosciuto e apprezzato sin da prima che diventasse Presidente della Repubblica, quando preparava quello che poi passò con il nome di Mattarellum, e poi dopo il Tatarellum. Ho conosciuto la sua intelligenza e la sua capacità politica, che ancora oggi manifesta nel suo altissimo ruolo.
Egualmente ho conosciuto e apprezzato le posizioni politiche distantissime del presidente emerito Giorgio Napolitano, nei cui confronti si era creata una vera simpatia, almeno da parte mia, che ho avuto modo di servire come Ministro della difesa, essendo lui allora il capo delle Forze armate italiane.
Il mio ringraziamento sincero va alla Presidente di questa giornata, senatrice Segre, che non voglio chiamare Presidente provvisoria, ma Presidente morale. Non c’è una sola parola di quello che ha detto che non abbia meritato il mio applauso.
Voglio ringraziare per come ha condotto questi anni la vita del Senato una cara amica, più che un’amica, una persona di grande spessore umano e culturale; parlo di Maria Elisabetta Alberti Casellati, seduta molto vicino al presidente emerito Pera, che saluto e ringrazio come tutti i Presidenti che lo hanno preceduto.
Facendomi interprete della nostra Istituzione, saluto con grande rispetto il sommo Pontefice che anche in questi giorni ci ha dato un segno della sua alta guida spirituale e morale, sottolineando come la risposta necessaria per contrastare e cercare di battere la povertà sia il lavoro degno e ben remunerato; deferente omaggio al Papa.
Un pensiero alle donne e agli uomini in divisa, che porto nel cuore per la mia storia politica e istituzionale e che sono la bandiera dell’Italia nel nostro Paese e nel mondo, ideali di pace e di sicurezza. Lasciatemi dire che nella mia lunga vita politica i momenti più toccanti, che ricordo con più tristezza, ma anche con più dedizione, sono i momenti in cui sulle mie spalle ho portato le bare dei soldati caduti in Afghanistan, che mi toccava ricevere. A loro, a tutti i militari, a tutti i caduti di ogni guerra, va il mio deferente omaggio.
Purtroppo la guerra non è solo un ricordo, ma un attualità drammatica e dolorosa che vorremmo finisse ora, in questo minuto. Vorremmo che il clamore delle armi fosse sostituito dalla voce di trattative che possono arrivare però solo con giustizia perché non può esservi mai pace senza giustizia. Visto quindi che parliamo drammaticamente e tristemente di guerra per quello che i patrioti ucraini stanno subendo in questo periodo, a loro va il mio pensiero, così come il mio pensiero va ai profughi e ai rifugiati ucraini e di ogni parte del mondo che scappano dalla guerra e che devono essere accolti con onore.
Qualcuno di voi ha avuto occasione di conoscermi, qualcuno di apprezzarmi, qualcuno meno, lo capisco, l’agone politico è quello che ci porta al confronto, a volte anche battagliero e teso. Però ho la speranza in cuor mio di sapere che quelli che mi hanno conosciuto quando ho avuto ruoli istituzionali – penso alla senatrice Rossomando ad esempio, che mi ha avuto come Presidente della Giunta per le autorizzazioni alla Camera – abbiano potuto apprezzare il mio totale rispetto per le istituzioni. Quando sono chiamato ad assolvere un ruolo sopra le parti, posso assicurarvi che lo faccio con assoluta dedizione. Voglio quindi dire a questa Assemblea che sarò inflessibile nel difendere, nella stessa identica maniera, i diritti della maggioranza e quelli dell’opposizione; mi troverete pronto su questo.
Ho cominciato a fare politica appena nato, perché mio padre faceva politica; faceva – come me – l’avvocato, aveva le sue idee, che non ha mai rinnegato. A differenza di mio fratello maggiore, che era democristiano – in casa mia si respirava aria di libertà e lui non è stato mai rimproverato di non seguire l’idea che era prevalente in famiglia, di destra -, io ho cominciato a fare politica nelle organizzazioni giovanili: l’ho fatta nei momenti duri, durissimi, della contestazione, della violenza, della resistenza al terrorismo.
C’è una frase che mi hai ispirato su come comportarmi in quegli anni, quando l’immagine che oggi vediamo non solo non era possibile, ma non era neanche sognabile ed immaginabile. Era una frase di un Presidente della Repubblica italiana, di estrazione certamente non identica alla mia. Questo Presidente, che abbiamo apprezzato anche nelle sue esternazioni extrapolitiche (penso a quando abbiamo vinto i campionati del mondo di calcio), era Sandro Pertini e la frase era la seguente: «Nella vita talvolta è necessario saper lottare non solo senza paura, ma anche senza speranza». La lotta non avviene – aggiungo io – solo quando pensi di poter vincere, ma quando pensi che quell’occasione valga la pena di essere vissuta. Grazie a Sandro Pertini per questo insegnamento.
Innanzi a noi ci sono drammi, paure, preoccupazioni, e penso a quelle dei cittadini che chiedono alla politica non solo di raccogliere le loro ansie, le loro necessità, ma anche e soprattutto di risolvere i problemi: penso all’inflazione e al caro energia, che sono un dramma per le famiglie ed hanno innescato per molte imprese il conto alla rovescia, con il rischio più concreto della chiusura. L’Italia non può e non deve fermarsi. Famiglie, imprese, terzo settore e volontariato, cittadine e cittadini: tutti chiedono lavoro, dignità, sicurezza, benessere. Tocca a noi, maggioranza e opposizione, provare a dare risposte giuste e urgenti. Sono certo che ci proverete.
L’ambiente che ci circonda e che dobbiamo rispettare e tutelare non è solo flora e fauna; è invece anche patrimonio di umanità, di relazioni di vita vissuta, perché senza certezze per sé e per i propri cari ad essere minato è l’intero ecosistema civile. L’ecologia non può prescindere dall’ecologia umana, e viceversa. Ma il rispetto e la tutela del Pianeta sono imprescindibili per l’eredità che vogliamo lasciare ai nostri figli. Ricordiamocelo in ogni momento. L’umanità è respingere ogni forma di violenza, di abuso, di discriminazione, di sopraffazione dei diritti dei cittadini, di tutti i diritti legalmente riconosciuti.
La violenza sui minori e sulle donne sono lo squallore della società e, oltre che combattute, come è evidente, vanno prevenute. Tutelare l’infanzia e promuovere la natalità è la prova di coerenza del nostro impegno per le future generazioni. Ogni fragilità ci riguarda e ci interpella; non basta denunziare, serve sostenere, dare speranza, avvicinare. Non dobbiamo chiedere ad altri ma a noi stessi cosa possiamo e dobbiamo realizzare per essere accanto a quanti vivono una diversa abilità – la vecchiaia, la malattia – che troppo spesso sono lasciati soli, ai margini. Per chi è debole il posto non è in fondo, è in prima fila.
Lavoro significa anche riscatto per i giovani, per il Sud, per le periferie, per le città, piccole e grandi, che si stanno svuotando; il lavoro è la storia dell’Italia. E la nostra è storia di ingegno, di passione, di arte, di cultura; nel mondo la parola Italia è quella che più di ogni altra appassiona e innamora cittadini anche lontanissimi geograficamente dalla nostra Penisola. Il lavoro, poi, è una porta, non può diventare il burrone delle morti bianche che gridano vergogna, se possibile ancora più forte quando le vittime, come avvenuto di recente, sono studenti tirocinanti.
Vittime da ricordare e onorare sono anche tutti i caduti sotto i colpi della pandemia, spesso medici e infermieri che la combattevano. Sulla pandemia, che sembra battuta nella sua fase più acuta, non abbasserete e non abbasseremo comunque la guardia.
Le tante crisi del nostro tempo e del nostro mondo hanno bisogno di miracoli, e chi meglio della nostra storia, della nostra capacità produttiva, del nostro ingegno, della nostra essenza può compiere tali miracoli nel quotidiano? Penso, per esempio, al tema del made in Italy, che non può essere semplicemente enunciato; va difeso, tutelato, affermato, in Italia, nelle istituzioni italiane, e anche forse e soprattutto europee. Nessun ambito è escluso dall’eccellenza italiana: il settore agroalimentare, il turismo, la moda, l’innovazione tecnologica e digitale. La nostra comunità nazionale ha sempre dimostrato di non essere seconda a nessuno anche in tema di solidarietà: nel campo del primo soccorso, della protezione civile, dell’assistenza sociale e scolastica, delle attività culturali e sportive; non dimentichiamolo. Non permettiamo mai che si possa immaginare che la solidarietà non è un primato italiano che vogliamo rivendicare a tutti i livelli. Siamo qui, nell’Aula del Senato, con una doppia iscrizione alle mie spalle molto importante.
Forse qualcuno non lo sa, ma si discusse se il Senato della Repubblica dovesse essere chiamato così o Camera dei senatori, così come la Camera dei deputati. Prevalse – e me ne rallegro – la dizione «Senato della Repubblica», perché è l’emblema del nostro senso di unità di fronte a ogni difficoltà, a ogni dramma; nel nome della nostra istituzione c’è la sua identità: non il Senato di una parte, di un blocco di interesse, di una maggioranza e di una opposizione, ma il Senato della Repubblica, cioè di tutti noi italiani.
Anche in questa legislatura, presidente Casellati, ci si aspetta e si cercherà di parlare di riforme. Non bisogna favoleggiare la possibilità che si faccia tutto e subito, ma soprattutto non bisogna temerle. Dobbiamo provare a realizzarle insieme. Al Senato della Repubblica può spettare il via, anche nei confronti dell’altra Camera, nella necessità di aggiornare non la prima parte della Costituzione, che è intangibile, ma la parte che merita più efficienza, più adeguatezza ai nostri tempi, più capacità di dare risposte ai cittadini, più capacità di appartenere alla volontà del popolo.
Io credo che questo Senato, in questa legislatura, potrà farlo: direttamente, con una legge che promuova una Costituente, oppure con una Bicamerale.
Sono vari i modi, ma l’importante — come mi hanno insegnato fin da ragazzo — è che vi sia la volontà politica, che è la cosa fondamentale, di realizzare queste riforme. Se c’è quella volontà, le riforme passeranno.
L’ho già detto prima e ve lo ribadisco: sono stato sempre un uomo di parte, di partito più che di parte, ma in questo ruolo non lo sarò. Ve lo dicevo prima, lo riaffermo ed è una lezione che ho appreso in tanti anni, tra gioia e dolori; anni di militanza, di affermazioni, di difficoltà, cercando sempre di cogliere dagli eventi ogni utile occasione di crescita, anche di messa in discussione delle proprie posizioni. Non rimanere abbarbicato a idee immutabili, ma svilupparle senza tradirle è stato l’impegno non solo mio, ma della mia parte politica in maniera larga. Un insegnamento – consentitemelo – che a livello personale ho appreso da mio padre, che è stato senatore di questa Repubblica, e a livello politico ho ricevuto da più persone, ma in particolare da un uomo che ha insegnato a me e non solo a me il valore del dialogo e dell’armonia. Non a caso veniva chiamato «ministro dell’armonia», il non dimenticato onorevole Pinuccio Tatarella.
Non applaudite troppo che Pinuccio si arrabbia.
In tanti anni di politica ho potuto vedere da vicino le evoluzioni della società italiana, anche le più traumatiche. Non posso non ricordare la drammatica stagione delle violenze, del terrorismo politico e dei tanti ragazzi, di ogni colore politico, che hanno perso la vita solo perché credevano in degli ideali, o a volte solo perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato: studenti, servitori dello Stato, giornalisti, imprenditori, politici. Le loro storie rappresentano un portato che ancora oggi è e deve essere una stella polare per tutti noi. Di nomi ne potrei fare tanti e dovrei forse farne tanti, ma credo che quello dell’ispettore Calabresi possa rappresentarli tutti.
Assieme al suo, per restare nella mia Milano, i nomi di tre ragazzi: un militante di destra, Sergio Ramelli , che ho conosciuto e di cui sono stato anche avvocato di parte civile e due di sinistra, i cui assassini non sono mai stati trovati, Fausto e Iaio .
Mi inchino anche davanti alla loro memoria. Credo che questi nomi possano rappresentarli tutti.
Se la stagione del terrorismo politico può essere considerata vinta (speriamo, ma non sottovaluto nessun nuovo eventuale fenomeno in atto), maggiori preoccupazioni continuano ad esserci per quanto riguarda la lotta al terrorismo internazionale e alla criminalità organizzata. Non dobbiamo mai abbassare la guardia rispetto ai fenomeni mafiosi, in qualunque luogo o forma si manifestino.
Anche in tale contesto, sono certo che sapremo fare tesoro degli insegnamenti e del sacrificio di quegli eroi lasciati troppo soli quando erano in vita, che nonostante ciò hanno sacrificato per lo Stato le loro proprie esistenze: agenti di polizia, carabinieri, magistrati, politici, giornalisti possono e devono essere ricordati nel migliore dei modi con un costante impegno di tutti nel condurre la battaglia per la legalità, come ci hanno insegnato Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quest’anno, peraltro, ricorre il trentesimo anniversario dal loro barbaro omicidio.
Ho voluto, non pro forma, ma come moto sincero dell’animo, omaggiare la senatrice a vita Segre anche con dei fiori, dopo essermi intrattenuto con lei in privato. La senatrice Segre ha ricordato tre date e io non voglio fuggire, perché è troppo facile scappare di fronte alle richieste di chiarezza: è stato ricordato il 25 aprile, il 1° maggio, il 2 giugno, cui potrei aggiungere la data di nascita del Regno d’Italia, che prima o poi dovremo far assurgere tra quelle celebrate con festa nazionale.
Queste date, tutte insieme, hanno bisogno di essere celebrate da tutti, perché solo un’Italia più coesa, pacificata e unita è certamente la migliore e la più importante precondizione per poter affrontare efficacemente ogni emergenza e ogni criticità.
Faccio mie, a distanza di ben venticinque anni, le parole pronunciate da Luciano Violante nel suo discorso di insediamento da Presidente della Camera dei deputati: come oggi ho avuto l’onore di essere proclamato dalla presidente Segre, allora molto più modestamente, in base a quanto stabilito dal Regolamento della Camera dei deputati, Violante fu proclamato da me — e penso a quante cose ho fatto nella mia piccola vita — che al tempo ero Vice Presidente anziano. Non ho bisogno di ripetere per intero le parole di Luciano Violante, ma solo nella parte che spero sia più condivisibile da tutti. Riferendosi alla necessità di un superamento di qualunque momento di odio, di rivalità, di contrasto storico, di antiche o nuove discussioni, con un linguaggio che mi auguro sia quello auspicato dalla presidente Segre, Violante ebbe a dire che un clima coeso «aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro Paese, a costruire la liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo Paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno. Dopo, poi, all’interno di quel sistema comunemente condiviso, potranno esservi tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni».
Grazie Violante per questo lascito ancora attualissimo, forse ancora più attuale di quanto ebbe a pronunziare quelle parole.
Questo impegno investe direttamente quest’Aula, perché è proprio il Parlamento con la sua centralità a rappresentare e custodire la memoria collettiva del Paese. Le istituzioni si riconoscono nelle leggi dello Stato, nelle feste e nelle tappe che hanno scandito la loro storia e oggi sono, non solo ricordo del passato, ma memoria del futuro. È con questo sguardo, che si nutre di storia e di futuro, che guardiamo all’Unione europea come casa comune. Forse potremmo tutti insieme recuperare una parola che per tanti anni è stata usata per indicare e pensare l’Europa: comunità. Sì, l’Unione europea può e deve essere ancora comunità; l’Unione europea può essere ancora speranza di pace, se saprà, come deve assolutamente fare, elevare il suo raggio di azione sempre più in alto rispetto alle cose, non dico irrilevanti, ma a volte di secondaria importanza.
Voglio concludere questo intervento. Mi ero preparato delle citazioni e frasi a effetto per concludere, ma poi ho pensato che non è giusto. Il mio è un compito di servizio: non devo cercare oggi applausi, parole roboanti e di captare la vostra benevolenza. Lo dovrò fare ogni giorno con i miei atti e con le scelte che dovrò compiere, che a volte piaceranno e altre volte no sia alla maggioranza, che all’opposizione. Non c’è bisogno, per concludere, di parole che suscitano un applauso, ma solo di una sincera promessa: cercherò con tutte le mie forze di essere il Presidente di tutti. Ve lo giuro.