Dejan Savicevic, 58 anni di genio balcanico al ritmo di Goran Bregovic

Limitativo, chiamarlo Genio. Teo Parini ne ricostruisce la parabola.

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Pare fosse impossibile chiedergli di alzarsi dal divano di Milanello in quelle giornate, per lui piuttosto frequenti, pregne di ozio e indolenza. Frangenti nei quali ogni cosa deve essergli sembrata troppo faticosa. Fabio Capello, con lui, ci avrà lasciato mezzo fegato, questione di carattere. Un sergente di ferro contro un muro di gomma con i muscoli di seta, roba da uscirne pazzi. Almeno fino a quando Dejan Savicevic non decidesse di accendere la luce, anzi di accendere sé stesso e uno dei sinistri più educati di ogni epoca. A quel punto, sì, gli si perdonava ogni cosa. Anche di essere l’indiscusso pupillo del Presidente, quello innamorato del bel giuoco, oltre che delle belle donne.

Silvio Berlusconi lo scoprì in quel gran casino che ci fu a Belgrado quando una nebbia densa come catrame oscurò il Marakana nell’inverno del 1988, salvando il futuro Milan degli Invincibili dalla probabile disfatta al cospetto di una Stella Rossa, padrona di casa oltre che del risultato, debordante di talento. Insieme a Stojkovic, Prosinecki e Pancev, appunto, Savicevic, che con un suo goal ad inizio ripresa fece prendere una piega assai favorevole al match. Il Milan, infatti, dopo lo scialbo 1 a 1 dell’andata, ci stava ancora capendo poco. Gli slavi, bontà loro, sembravano indemoniati, tutti meno uno. Quintessenza, quest’ultimo, di svogliatezza e insopportabile menefreghismo. Lui, Dejan, passeggiava per il campo con le mani ai fianchi sbuffando indispettito, tanto che pareva avesse di meglio a cui pensare.

Tuttavia, le buone notizie per i rossoneri finivano qua, perché Savicevic, quando prendeva palla, dimostrava tempi di reazione mente-piede infinitesimi con il risultato che gli avversari intorno a sé brancolavano nel buio. Poi, come detto, la nebbia. Pauli, l’arbitro, decretava senza troppe alternative la sospensione dell’incontro, salvando un Milan con un uomo in meno e il morale sotto i tacchi, rinviando la contesa all’indomani. I rigori del giorno dopo, è storia nota, avrebbero premiato i ragazzi di Sacchi che finiranno per trionfare in quell’edizione della Coppa dei Campioni, si chiamava ancora così, con la meravigliosa Stella Rossa – fiore all’occhiello di un paese, la Jugoslavia, presto cancellato dalle mappe – che, quale risarcimento del destino, si imporrà tre anni più tardi. Ironia della sorte, proprio in Italia, proprio dopo i calci di rigore.

Leggenda vuole che Berlusconi si appuntò in agenda quel nome e in mente quel volto, nell’idea di consegnargli la maglia che fu di Rivera e il lasciapassare per lo spettacolo, il suo chiodo fisso. Detto e fatto. Il Milan, nel frattempo, salutato il Vate di Fusignano è quello sparagnino di Capello che non perde mai ma diverte troppo poco. Serve fantasia come ossigeno. Di più, serve genialità. Il resto è una vicenda d’amore che trovò il suo acme nella cornice afosa di Atene. La volta in cui il Milan, reso underdog dalla defezione della cerniera difensiva titolare, bullizzava il Barcellona più spocchioso di sempre, quello di Romario, Stoichkov e Cruijff in panchina, nella notte che valse al team fondato da Herbert Kilpin un secolo prima l’ennesima coppa con le orecchie grandi. Atene, infatti, se si parla di calcio è la parabola disegnata nel cielo intriso di umidità e smog tossico dal piede sinistro di un giocatore che non ha eguali nella storia recente del folbár per almeno due peculiarità: pigrizia e, appunto, genialità intrinseca.

Lato destro del campo, più o meno sulla tre quarti. Rossoneri avanti per due reti a zero, con Savicevic imprendibile, Guardiola col mal di vivere e Massaro in versione killer. Nadal, quello tignoso nonché marcatore vecchia maniera, veniva uccellato con scaltrezza dal controllo palla di Savicevic, tanto da ritrovarsi senza più la sfera tra i piedi e, soprattutto, senza capire il perché. Il montenegrino, non ancora soddisfatto dello scalpo irridente, alzato lo sguardo a pizzicare Zubizzarieta lontano dai pali, andava a disegnare nell’aere un lob dal respiro antonelliano per infilare il pallone nel sacco da una posizione che a dirsi ambiziosa si sbagliava per difetto. Fu il sigillo di una serata che lo avrebbe catapultato nell’olimpo del gioco, uno spot imperituro alla bellezza.

Così, con una prodezza balistica euclidea, il cerchio si chiuse intorno al numero 10 più geniale della sua epoca. Non per niente lo si chiamava affettuosamente Genio e lui, a sentirlo dire, si divertiva un sacco, fingendo stupore. Con l’aria sorniona di chi nella vita non si è mai preso troppo sul serio. In realtà, Dejan ci godeva un mondo. Sapeva fin troppo bene di essere ricoperto dalla testa ai piedi dell’amore, viscerale e incondizionato, dei suoi tifosi drogati di bellezza. Gente che, in cambio di una magia delle sue, avrebbe lasciato correre ogni cosa.

Tanti auguri, Genio, quanto ci siamo divertiti insieme.

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