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Ciclismo: i primi 60 anni del Diablo Chiappucci, che senza vincere non ha mai perso- di Teo Parini

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Il Diablo sapeva fin troppo bene che, probabilmente, quella corsa non l’avrebbe mai vinta, ma sapeva altrettanto bene che ci sono due soli modi per perderla e che lui, tra le opzioni sul tavolo, avrebbe sempre scelto quello buono per fare saltare i tifosi sul divano e per sfiancarsi senza riserve i quadricipiti.
Claudio Chiappucci da Uboldo, terra di instancabili pedalatori, era fatto così, tutto o niente e anche se il più delle volte al traguardo ci è arrivato con un pugno di mosche in mano, l’Unesco, se solo si occupasse anche di ciclismo, lo includerebbe tra i patrimoni dell’umanità al pari delle vette che ha glorificato con sudore e coraggio nell’arco di una carriera intera. Perché ultimo baluardo di un ciclismo che fu epica e sensazioni ma che proprio in quel tempo aveva intrapreso la strada senza ritorno che lo avrebbe portato troppo in fretta a essere una noiosa scienza esatta.

Per quello i cugini francesi, molto prima dei suoi connazionali, lo hanno visceralmente amato. Claudió, con l’accento finale che i transalpini proprio non riuscivano a non mettere, sulle strade arroventate dal sole estivo che subliminano il colore giallo Grand Bouclé godeva di una venerazione quasi religiosa proprio perché artefice di uno spettacolo che è ossigeno per chi fa dello sport più una questione di cuore che di almanacchi. E al di là delle Alpi, quale bizzarra eccezione di un campanilismo talvolta insopportabile, ciò non è mai passato inosservato e, a distanza di anni, il Chiappucci è ancora l’unità di misura delle imprese, come il Newton quantifica la forza.
È il ciclismo pancia a terra di chi non ha paura di gettare sull’asfalto anche l’ultima goccia di energia, di chi predilige l’istinto e molto meno la tattica, di chi coltiva sogni dove tutti pensano non possa crescere nemmeno la sterpaglia. In altre parole, il ciclismo di chi finisce per non vincere mai, vittima di scelte perennemente dissennate e generosità suicida, ma che ti fa sentire parte di una famiglia allargata e coesa.
Siamo certi che se Miguel de Cervantes avesse condiviso la stessa epoca, il celebre Don Chisciotte avrebbe potuto assumere le sgraziate sembianze del Diablo per motivi che i romantici adoratori dell’immenso scrittore madrileno non faticheranno a comprendere. Il suo mulino a vento aveva le granitiche sembianze di uno che, al contrario, gli almanacchi li ha marchiati col fuoco, Miguel Indurain, contro il quale, in un ciclismo strutturato su misura per quelli robotici come lui, non c’era davvero nulla da fare. Chiappucci – campione sì ma senza una particolare forma di talento purissima come invece poteva vantare Gianni Bugno, la sua nemesi nostrana – ha provato in ogni modo a scompaginare i piani egemonici di Indurain e il merito fu quello di impreziosire i successi del tiranno navarro proprio perché ottenuti al termine di battaglie rese possibili esclusivamente dalla sua commovente tenacia. Le meravigliose battaglie perse di cui sopra.
Però al Sestriere, il Diablo ci arrivò tutto solo, trasfigurato dalla fatica ma in perfetta solitudine. In uno dei pomeriggi più incredibili che il ciclismo abbia saputo regalare agli aficionados nella sua inesausta storia, Chiappucci ha reso terreno il concetto di miracolo percorrendo in compagnia di sé stesso e dei suoi demoni una fuga lunga duecento chilometri per provare a ribaltare il solito andazzo precostituito del Tour de France. Col de Saisies, Cormet de Roselend, Iseran, Moncenisio, Sestriere è la filastrocca indimenticabile di una giornata che ha il merito di aver spedito la classe operaia in paradiso, su in cima, a guardare per una volta la nobiltà dall’alto.
Sospinto da due ali di folla in estasi, Claudió trionfava in quello che resta l’acme nonché cifra stilistica di una vita sportiva intera e per la quale il motto “meglio un giorno da Diablo che cento da Indurain” è follia solo per gli aridi di cuore. Non serve aggiungere che quel Tour finirà per perderlo, ma a noi che importa?
Il varesino getterà alle ortiche anche un mondiale, anzi due, nei quali pedalava fortissimo. Ad Agrigento, soprattutto, con un titolo iridato che vestì le spalle di Leblanc nel giorno in cui si infilò malauguratamente nella tenaglia tutta francese poi rivelatasi letale. Rientrò in Italia con l’argento al collo e il sorriso di chi il bicchiere ha il pregio di vederlo sempre mezzo pieno. Alla Chiappucci, insomma.
Il ciclismo, contrariamente ad altre discipline, ha una peculiarità inviolabile. Vincere, per dirla alla Boniperti, sarà anche l’unica cosa che conta per alcuni ma è il come si vince a fare la differenza per tutti. A Chiappucci il popolo del pedale, infatti, chiedeva di farlo attraverso la fatica, mordendo l’anima a ogni scalciata assestata alla pedivella. Anche a Sanremo, dove quelli come lui al massimo possono animare un po’ la corsa e poi applaudire il vincitore. Ma sulla strada che porta alla città dei fiori, quella volta il cielo riservava tempesta, con il nastro d’asfalto che pareva essere un torrente in piena.
Quando al traguardo mancava un’eternità, perché il Turchino dista dal traguardo più di cento chilometri, Chiappucci dopo aver scrutato le nuvole si lanciò in discesa portandosi appresso qualcuno pazzo quasi quanto lui. Sui capi, le asperità, che unicizzano la Classicissima, Bull – come lo chiamava Bugno per via di quel suo collo inesistente – costruì, innestando i rapporti più duri, il suo capolavoro scrollandosi dalla ruota posteriore tutti quanti. Inzuppato fradicio e dopo non essersi mai voltato una sola volta per tutta la fuga, si riscoprì tutto solo alla passaggio sotto la fiamma rossa dell’ultimo chilometro, preludio di un trionfo che odora tutt’oggi di incredulità. Nessuno, al solito, gli dava credito ma lui si fece riprendere solo dopo aver tagliato il traguardo, questione di incoscienza, fantasia e garra.
Una Classica di San Sebastian, un paio di edizioni del Giro del Piemonte, una manciata di tappe tra Giro e Tour e stop, gli hurrà praticamente finiscono qui, selezionati e mai banali. Pochi o tanti che siano, con l’annoso dilemma che resta un dettaglio insignificante, Chiappucci ha appena compiuto sessant’anni e l’occasione è propizia per fargli recapitare il nostro grazie. Chi ha avuto il privilegio di esserne tifoso ha potuto fare tesoro di un insegnamento prezioso. L’amore e il rispetto della gente si conquistano solamente fornendo di noi, in ogni frangente, la migliore versione possibile.
Il Diablo, in tal senso, ha plasticamente incarnato la speranza comune di poter realizzare i desideri, anche armati solo di un’incrollabile forma di volontà e senza una particolare benevolenza di Madre Natura. È per questo motivo che i Chiappucci del mondo, per definizione, non perdono mai.
di Teo Parini

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