“Non ho problemi a dire tutto quello che so. È una storia che allora mi turbò molto. Ma ci dobbiamo calare in quel contesto di guerra”. A parlare in un’intervista a ‘Repubblica’, è Michael Giffoni, nella SARAJEVO assediata il vicecapo della
delegazione diplomatica speciale (due anni dopo diventò ambasciata).
Un giovane diplomatico che fu poi il primo ambasciatore italiano in
Kosovo dal 2008 al 2013. La sua testimonianza conferma la notizia di
italiani tra i cecchini che sparavano dalle colline. Nella SARAJEVO
del 1994, racconta: “Eravamo costantemente sotto il tiro dei cecchini.
Anche noi, pur avendo uno status. La mia Fiat Panda giardiniera era
piena di buchi. Il contatto con quello che succedeva sulle alture,
anche a Grbavica, era praticamente nullo. Era un tutti contro tutti.
In situazioni del genere si scatena una ridda di voci incontrollate.
Ricordo, anche con una certa emozione, quando sono arrivato a
SARAJEVO, fine 1994. Mi hanno subito riferito: ‘Sai, lì ci sono i
Safari’. Arrivavano vagonate di ricchi da tutte le parti. Cacciatori,
ma anche imprenditori. Militari o paramilitari, che in quel conflitto
erano forti, li portavano sulle colline e questi pagavano. Poi tutto
divenne più chiaro”.
“Arrivò ai funzionari del Sismi l’informativa dell’intelligence bosniaca di italiani tra i cecchini (ne dà conto l’esposto di Ezio Gavazzeni da cui è scaturita l’inchiesta della procura di Milano, ndr). Edin Subasi?, l’ex 007 che lo racconta, non si inventa nulla”. Subasi al Sismi riferì “che i bosniaci avevano catturato un paramilitare serbo, aveva ‘cantato’ che sulle alture arrivano a sparare anche stranieri. Russi, ma anche italiani. Venivano fatti arrivare da Trieste, in volo e con altri mezzi. Riuscivano ad arrivare in Serbia e da lì portati sulle alture. Così fu detto alla cellula del Sismi”.
“L’informazione sui cecchini italiani ci venne confermata poi anche dal capo di Subasic, Mustafa Hajrulahovic detto ‘Talijan’, l’italiano, eravamo in buoni rapporti”, ha aggiunto. Poi “l’informazione venne riferita ai vertici dei servizi segreti romani. Da Roma, dopo qualche mese, hanno fatto sapere ai due funzionari che la pista era stata esplorata, che avevano identificato chi organizzava e che la cosa era stata ‘chiusa’. Rassicurarono che, almeno dall’Italia, il flusso era stato fermato. E ordinarono di veicolare l’informazione ai bosniaci”.
“L’abbiamo saputo nel 1994. Ma è sicuro che le ‘malefatte’ fossero
state fatte anche nel 1993 – ricorda – Dopo questa comunicazione, non
è mai stato chiesto né aggiunto nulla, altrimenti l’avrei saputo.
Tutto quello che allora venne fatto, sul posto, era quello che
potevamo fare da lì, in un contesto di totale disintegrazione. Se
avessimo avuto un nome, allora, l’avremmo perseguito. Rivendico con
orgoglio quegli anni. La notizia ci turbò molto. Anche perché l’Italia
in Bosnia ha fatto tanto, specie come società civile. Ho visto decine
di migliaia di volontari arrivare con camion pieni di aiuti. Gli
italiani hanno sostenuto il popolo bosniaco con una generosità e una
vicinanza incredibili, era una guerra alle porte. E sapere di
connazionali tra i cecchini ci dispiacque molto”.
SULL’ARGOMENTO E’ APPARSA IERI UN’INTERVISTA AD UN EX AGENTE SEGRETO BOSNIACO, CHE E’ PUBBLICATA DALL’OSSERVATORIO SUI BALCANI A QUESTO LINK: https://www.balcanicaucaso.org/cp_article/sarajevo-safari-una-testimonianza-dal-campo/




















