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Cara è la fine di un’Idea. Palingenesi di Roger Federer-di Teo Parini

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

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Il 2001, per chi se lo ricorda, fu un anno a tratti nefasto. In Italia, intanto, la macelleria sociale della Diaz nei giorni del G8 fa sprofondare il paese nella vergogna più nera mentre, su scala più ampia, la caduta delle torri a New York esacerba la stagione del neoimperialismo che ancora oggi condiziona la politica internazionale. E mentre i Marlene Kuntz cantano ‘Cara è la fine’ e il giornalismo piange Indro Montanelli, lo sport celebra, ancora senza saperlo, un momento che solo diciotto anni più tardi scoprirà essere leggendario. La quota cento del tennis.

Milano, fine gennaio, c’è la nebbia e il solito freddo umido. È in corso di svolgimento l’edizione numero 24 del Milan Indoor, manifestazione tennistica meneghina di ottima tradizione, capace di celebrare negli anni campioni della risma di Borg, McEnroe, Lendl, Becker e Edberg. In finale ci arrivano un carneade francese, tale Boutter – colloso manovale tutto gambe e polmoni – e un diciannovenne del quale da tempo non se ne fa che parlare un gran bene in quanto a doti tecniche e piuttosto male per via di un caratterino difficile da gestire. Lo guardi e sei combattuto tra l’idea del solito funambolo pazzoide che non combinerà mai nulla di buono nella vita, perso così com’è in una personalissima battaglia contro i suoi stessi demoni, e l’uomo della provvidenza, spedito dagli dei del tennis che non si rassegnano al dominio di uno Hewitt qualunque. Roger Federer da Basilea, il suo nome, vincerà quel torneo, il primo, e tutti sappiamo bene cosa succederà poi, avendo finito per prevalere sopra ogni cosa il talento tennistico più cristallino di sempre. Milano apre così un’era nuova di un tennis condannato progressivamente a imbruttirsi soggiogato dalla noia e che per due decadi si aggrapperà strenuamente a Federer per continuare a esibire di sé la miglior versione possibile. Nonostante il perfezionamento dell’attrezzo e l’omologazione dei playground renderanno via via meno influente l’educazione e la gentilezza della mano dominante, spianando la strada ai futuri dominatori del corri-e-tira e la difesa come arma di offesa.

Due decadi, quasi, e novantanove tornei (vinti) dopo, si fa oggettivamente fatica a trovare qualcosa di originale su Roger Federer che ancora non sia stato detto. Ha vinto venti major, va bene, per anni è stato in cima al ranking mondiale, va bene, ha inscenato con quel diavolo di Nadal una rivalità che ha spostato l’asticella del gioco su livelli mai esplorati. E va bene, sappiamo già tutto. Ciò che con tutta probabilità non ci è chiaro, semmai, è quel che succederà, ormai a breve, quando il fenomeno svizzero sceglierà di dedicarsi full time agli eredi e non più al nostro palato. Perché se è vero che lo sport è sempre sopravvissuto al passaggio dei suoi interpreti più luminosi sfornandone degli altri anche altrettanto virtuosi, è altresì vero che nello specifico a lasciare non è un campione ma un’idea, qualcosa più mistica che tangibile. E quella, per definizione, non può essere surrogata. La genia dei Maradona, dei Jordan, dei Pantani, dei Campese, dei Tomba e, appunto, dei Federer non troverà mai giustizia negli insulsi e postumi almanacchi, sarebbe blasfemia. Perché è essenza.
E, che piaccia o meno, presto nulla sarà più come prima.

Teo Parini

 

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