Mercoledí 30 Ottobre 1974. Seconda liceo cominciata da un mese. È la vigilia del sospirato “ponte dei morti”. Con l’aggiunta del 4 novembre, Festa nazionale della Vittoria (ormai da anni vigliaccamente cancellata dal calendario). E, per noi studenti legnanesi, c’è anche la salutare coda del giorno 5, alias San Magno, patrono della Città del Carroccio. Insomma, una bella tirata d’ossigeno, dopo questo pesantissimo, primo mese di scuola.
Questa notte sarà una notte speciale. È tutto il giorno che ci penso. Sono giorni che ci penso. A Kinshasa, Zaire, ospite il sanguinario dittatore Mobutu Sese Seko, sta per andare in scena il match del secolo (così definito dai giornali del pianeta) tra il campione del mondo in carica dei pesi massimi George Foreman e lo sfidante, un “certo” Muhammed Alì, all’anagrafe Cassius Marcellus Clay Jr..
Al mattino sono in classe e non mi frega niente delle lezioni. Le ore scorrono lente. Forse veloci. Mi tremano le mani. Prima o poi arriverà sera. In TV il match del secolo è lì che mi aspetta. C’è di buono che anche mio papà Aurelio è appassionato di boxe, per cui sul palinsesto televisivo – peraltro ristretto – non c’è da discutere. Ma il match sarà combattuto e trasmesso a notte fonda, in modo che gli americani lo possano vedere in prima serata. E il carnefice Mobutu si frega le mani, perchè diventa anche lui una star mondiale, sia pure di sbieco.
Muhammed Alí mi è sempre stato sulle scatole. Il suo fare strafottente. Il rifiuto di andare in Vietnam (che gli costa tre anni di inattività). Il ritorno sul ring con la pretesa di essere “il più grande”. Un vero rompicoglioni. Davvero insopportabile.
“Merita una batosta definitiva”, mi dicevo. Intanto, inesorabile come la Signora con la falce, mi si incista nel cervello un tarlo bastardo. Non voglio ammetterlo. Ma Alì comincia a piacermi. Il suo fare strafottente. Il rifiuto di andare in Vietnam. Il ritorno sul ring. Con la pretesa di essere “il più grande”. Per di più un negro.
Cristodundio, comincia a piacermi! E non mi dò pace. Ma stasera, anzi stanotte, la facciamo fuori. Tu ed io. Foreman viene dal Texas. È negro come te. Ha 7 anni meno di te. E un cartellino da paura. 40 incontri. 37 knock out. Imbattuto. Una macchina progettata e costruita per uccidere. Con mio papà il match lo vediamo sulla TV svizzera, perchè non sappiamo se la Rai lo manda in onda.
Del resto, abitare a 35 km. dal confine servirà pure a qualcosa. È l’ora. Si accende la TV. “Go George!”.Toglimi dalle palle quel gradasso di m… E levami finalmente dal cervello quel tarlo bastardo che non mi dà tregua! Foreman è una tigre famelica. Domina il match. Alì è alle corde. Prende botte da paura. Da tutte le parti. Un assedio senza fine. Sempre chiuso dentro. Imbottito di pugni. Poi succede l’impensabile. Minuto 2,45 dell’ottava ripresa. Un gancio sinistro di Alì gira la faccia di Foreman come una trottola. E un destro al mento lo spedisce al tappeto. Poco più di mezz’ora.
Tutto finito.
Saluto e vado a dormire. Frastornato e confuso. Come un setter cui hanno sfilato una beccaccia sotto il naso. Non esiste. Non chiudo occhio. Il mattino arriva presto. È buio. Fa freddino. L’autunno lombardo detta la sua legge. Riluttante vado a scuola. Delle lezioni non mi frega niente. Come ieri. Tanto domani è festa.
Ma un sorriso mi affiora alle labbra. Forse ora… Faccio fatica ad ammetterlo. No. Devo ammetterlo. Di sicuro ora so chi è davvero “IL PIÙ GRANDE”. Alla faccia dei tarli bastardi. O forse grazie a loro.
Incontrerò “THE GREATEST” sei anni dopo. Settembre 1980. Ho vent’anni. Vado a cercarlo a Las Vegas, dove di lì a qualche giorno, al Caesars Palace, nuova meraviglia della città del gioco, sfiderà il suo ex “sparring partner” e compagno di strada Larry Holmes.
Alì è al tramonto. Aveva già annunciato e confermato il ritiro. Ma sulla tabella di marcia quotidiana ha troppa gente da mantenere. E non può ancora appendere i guantoni al chiodo.
Las Vegas non ha nulla a che fare con quella di oggi. Riesco ad eludere la sorveglianza. Raggiungo la sala allestita per gli allenamenti. Entro senza bussare.
Una coppia di gorilla neri come la pece mi solleva da terra. Vedo il Campione ancora avvolto nell’accappatoio. E lui vede me. Fa segno ai buttafuori di tenermi dentro. Si avvicina e mi chiede come mi chiamo e da dove vengo. Gli dico che sono italiano e gli chiedo un autografo e una dedica. So che lui non ama avere gente attorno. Ma sarà che ho il faccino efebico e gli occhi azzurri da angioletto. Così gli porgo una copia del Time, e porto a casa dedica e firma. Più un buffetto sul muso. Prima di salutarci. I gorilla mi accompagnano alla porta. Gentilmente. Non so più dove sono. Ma mi sembra di essere “IL PIÙ GRANDE”!
Guardiamoci, cinquant’anni dopo, questi otto minuti scarsi di grande boxe. Non sono gli “highlight” di un incontro irripetibile. Sono una lezione di vita.
Tra due giorni parto per il Texas. Ma farò una deviazione, non m’importa quanto lunga, per andare a Louisville, Kentucky. A posare un fiore sulla tomba del PIÙ GRANDE. Anche sul ring della vita.
RIGUARDIAMO INSIEME QUEGLI OTTO MINUTI CHE HANNO CAMBIATO LA STORIA DEL PUGILATO E NON SOLO: