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Bloody Sunday, 51 anni dopo: quando l’esercito inglese sparò sul popolo irlandese (disarmato)- da Barbadillo

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Gerald Donaghy aveva solo diciassette anni il giorno in cui spirò.
Stava tentando di dirigersi verso il Glenfada Park di Derry, inseguito dai proiettili dell’Esercito britannico.
Non riuscirà a trovare salvezza: una pallottola lo raggiunse allo stomaco, uccidendolo sul colpo in uno spoglio parcheggio dei Rossville Flats (un complesso di palazzine di edilizia popolare).
Assieme a lui, in quel pomeriggio, rimasero a terra altre dodici persone.

John Johnston sarebbe poi deceduto alcuni mesi dopo, a causa delle ferite riportate, divenendo la quattordicesima vittima (delle quali nove tra i diciassette e i ventidue anni) di una giornata che si sarebbe semplicemente dovuta segnalare per una marcia “militarmente” inoffensiva e politicamente moderata.

Per ricordare un avvenimento, in una data specifica, evitando che questo rimanga impigliato tra le secche della storia o peggio ancora della statistica, l’esercizio più utile da elaborare è nel porre l’accento, muovendolo sulle singole storie: l’ottica, dall’unicità di una vicenda personale, quella di creare una certa immedesimazione tra chi legge e l’avvenimento in sé.

Tanto si è scritto sull’Irlanda, sulla sua genealogia e sulla capacità che questo lembo di terra “color Smeraldo”, immerso nell’Oceano Atlantico settentrionale, abbia costituito l’apice dell’incontro di numerosi universi concentrici e di infinite realtà; uno smeraldo che ha somatizzato l’antinomia tra la luce, la cui essenza si ritrova nei verdi prati lambiti dalle precipitazioni, mentre all’orizzonte si stagliavano arcobaleni, nei pascoli, nelle scogliere e il sangue di chi per lei – o in nome di una qualche “idea” dell’isola – è morto, è stato ucciso o si è fatto ammazzare.

Dunque, per ridare vita, vigore e dolore alle proiezioni della memoria, scavalcando la ricorrenza, non si può prescindere dallo scandagliamento dell’istante, dalla necessità di sondare il momento.

 

Tra lo Spirito e la terra

Derry è una delle città più antiche d’Irlanda: germogliata lungo le rive del fiume Foyle, le sue origini si perdono nei secoli, risalendo taluni indizi storici al VI Secolo d.C.  allorquando San Columba di Iona – uno dei più importanti monaci irlandesi, nonché punto di riferimento tra coloro che introdussero il Cristianesimo in Scozia durante l’Alto Medioevo – fondò un monastero nella medesima porzione di territorio occupata oggi dalla città moderna, per quanto addirittura le aree circostanti fossero presumibilmente già oggetto millenario di insediamenti.

Celebrato il 9 giugno, San Columba di Iona è uno dei Santi Patroni dell’Irlanda, insieme a San Patrizio (festeggiato il 17 marzo) e a Santa Brigida d’Irlanda (onorata il 1º febbraio).

Sull’Isola, comunque, allo scorrere del tempo faceva da contraltare la penuria del solenne, tanto era il contrasto tra la dimensione del sacro e la crescente durezza delle condizioni materiali di vita: dopo un XIX Secolo d’inedia, stenti e fame – e il cui apice venne raggiunto con la Great Famine, la Grande Carestia durata sette anni, fino almeno al 1852 – il XIX assumeva i connotati della Passione.

Fallita la Sollevazione di Pasqua del 1916, nei successivi sette anni l’Irlanda avrebbe ancora conosciuto la Guerra d’Indipendenza del 1919-1921 (conclusasi con la stipulazione del Trattato Anglo-Irlandese che costituiva lo Stato Libero d’Irlanda, semi-autonomo e con lo status di Dominion dell’impero), una legge del Parlamento Britannico – la Government of Ireland Act – che ne sanciva la divisione (con la creazione dell’Irlanda del Nord nelle sei Contee dell’Ulster a maggioranza protestante) e la Guerra Civile del 1922/1923.

 

Disordini e proteste

Tuttavia, quel 30 gennaio 1972 non vi erano elementi tali per non credere ad un’apparente normalità. Non sembrava si stesse per aggiungere un nuovo capitolo a quel libro così particolare della storia europea.

E invece, di fronte a quella che a torto o a ragione è stata definita “la più simbolica” delle tre Domeniche di Sangue, dopo quella di Dublino del 1920 e di Belfast del 1921, vale ancora la pena interrogarsi sul valore di quel sacrificio, in nome di una causa più grande – metafisica e scevra di attributi – ossia quella dell’Irlanda.

In secondo luogo, è parimenti doveroso fermarsi a riflettere su uno dei pilastri a composizione dello sfondo degli avvenimenti, spesso non adeguatamente rimarcato: in effetti, ecco scorgersi quella commistione di elementi, di concetti, e di assunti declinati specificamente, a partire proprio dal concetto di nazione, quale vincolo cardine, comunitario e politico.

Un assunto, quello sopracitato che oggi sembra essere relegato in secondo piano, nonostante ci siano popoli interi che ancora cercano con fatica di ritagliarsi un loro posto nella storia, distrutti da un imperialismo che oramai non è soltanto militare ma anche economico, finanziario e culturale, un imperialismo che schiaccia, annientandole, le singole peculiarità, le culture e cancella i ricordi.

Ancora più importante, fondamentalmente, è stato il ruolo della religione.

Religione – ed è stato questo il tassello fondamentale nel novero di un mosaico estremamente variegato – sostanziatasi non solamente in termini di fede di fede, bensì – come sarebbe stato il Cattolicesimo per i polacchi tra gli anni ’70, ’80, oppure l’Islam o il Battismo per taluni gruppi afroamericani degli Stati Uniti negli anni ’60 – in qualità di motore politico, altro elemento comunitario, identitario, di riconoscimento e di appartenenza.

 

Dividi et Impera

Le radici storiche della “Questione irlandese” sono conosciute, prodromo nei secoli di una più recente stagione di lotta armata, scioperi della fame e spietate repressioni: dopo la guerra civile e la firma del Trattato Anglo-Irlandese (1921) che di fatto sanciva la divisione dell’isola in due diverse entità, per i “cattolici” del Nord sarebbero arrivati tempi molto duri, ancor di più in seguito alla costituzione, nel 1949, della Repubblica d’Irlanda.

L’Isola d’Irlanda, dal punto di vista logistico ed economico, oltreché da quello esistenziali e morali, era stata una delle principali periferie del sistema imperiale britannico, resa un serbatoio di mano d’opera e di terre.

In Irlanda del Nord, poi, alle differenze di censo si erano aggiunte, acuendosi, quelle sociali e culturali: poveri come quelli del Sud, i cittadini britannici di nazionalità irlandese dovevano per di più convivere con un sistema che li discriminava in quanto minoranza, ghettizzandoli.

Come se non bastasse, con il tempo si era rafforzata una repressione di Stato che spesso utilizzava la propria legittima prerogativa di autoconservazione per stroncare ogni forma dialettica di confronto politico e sociale.

Ancora una volta si capisce quanto in tale sostrato di disperazione, la religione non fosse solamente una questione di fede e di ricerca del conforto ma un valore civile, motore politico e sociale.

Secondo questa linea, era andata affermandosi – già negli anni ‘60 – una forma di protesta non violenta per il ripristino delle libertà civili, sul modello di quella degli afroamericani negli Stati Uniti: un modo di lottare, questo, assolutamente non settario e apartitico, lontano persino da qualsivoglia intransigenza repubblicana e indipendentista.

Dal 1922, infatti, il regime normativo era quello (e lo sarebbe stato fino al 1972) dello Special Power Acts (SPA), grazie al quale i soldati e la polizia (la famigerata Royal Ulster Constabulary) ottenevano i massimi poteri: si poteva arrestare senza processo, perquisire senza mandato, venivano eliminate le libertà personali, ammesse la tortura e la flagellazione.

Non fosse abbastanza, in caso di timori per l’ordine pubblico, si potevano vietare cortei e feste e in ultimo, si poteva rifiutare il ricorso alla Corte di Giustizia o all’ Habeas Corpus.

 

Derry e i murales cattolici commemorativi

Derry: 30 Gennaio 1972

Il 9 agosto 1971, l’allora Primo Ministro unionista dell’Irlanda del Nord, Brian Faulkner, introduceva l’internamento (la detenzione o l’incarcerazione di individui senza processo), grazie all’avallo di Edward Heath (che in quel tempo risedeva al numero 10 di Downing Street), con il quale si era incontrato in una speciale riunione il precedente 5 agosto.

Attuato grazie all’indispensabile intervento dell’Esercito britannico, la misura puntava a reprimere e disarticolare le opposizioni più intransigenti verso lo status quo.

All’alba del 9 agosto, ecco scoccare l’Operazione Demetrius, con centinaia di arresti ed internamenti: i militari britannici e la Polizia Reale dell’Ulster (RUC), elenchi di nomi alla mano compilati dallo Special Branch della RUC e dall’MI5 (agenzia di intelligence britannica), irrompevano nelle case e portando via i “presunti” terroristi.

Il 30 marzo 1972 il Governo britannico sopprimerà il Parlamento di Stormont (creato e attivo sin dalla nascita dell’Irlanda del Nord), introducendo un più diretto controllo politico-militare sulle Sei Contee.

Proprio in nome dei diritti civili, e in particolare per chiedere la revoca dell’internamento senza processo, in quella fredda Derry di fine gennaio era stata organizzata una marcia.

Tra l’altro, non era affatto passato sotto traccia quanto quelle misure di polizia, emanate contro il terrorismo, fossero arrivate persino a mettere in discussione i capisaldi della storia costituzionale britannica che intorno a principi quali la centralità, insieme alla sovranità del Parlamento – al primato della legge – e sulle garanzie dell’individuo aveva visto divampare due rivoluzioni.

Nello specifico, quella risalente al 1642/1651 e la “Gloriosa” del 1688 dalla quale si sarebbe costruita nel tempo il primo esempio di monarchia parlamentare della storia.

Tornando al 1972, per evitare ogni controversia, era stato intimato all’IRA – che pure aveva accettato suo malgrado – di allontanarsi e di non presenziare in alcun modo alla manifestazione che sarebbe cominciata verso le ore 15:00 locali, con un corteo incamminatosi dalle strade del Bogside, in una Derry dal cielo plumbeo, rigidamente assettata e allestita come una prima linea di guerra.

A presidiarla, c’erano infatti le immancabili truppe britanniche: in particolare il Governo di Londra presieduto da Edward Heath aveva inviato il Primo Battaglione del Reggimento Paracadutati dell’Esercito, per tenere sotto tiro tutti gli avvenimenti.

La marcia prosegue senza difficoltà per un’oretta, fino alle 15:55, quando si sentono distintamente alcuni colpi: in un primo momento sembra regnare la confusione, qualcuno cerca di mettersi al riparo, chiedendosi cosa stesse succedendo.

La natura delle cose sarebbe apparsa ben presto chiara: ad aprire il fuoco erano stati proprio loro, i Paracadutisti, che, ricevuto l’ordine da Londra, avevano cominciato a sparare sulla folla inerme che per altro, come appurato, era ampiamente disarmata, colpendo ventisei civili e ammazzandone tredici sul colpo.

Da quelle 15:55, dal momento in cui i paracadutisti aprirono il fuoco, la storia cambierà inesorabilmente il proprio corso: i Troubles, iniziati formalmente tre anni prima con gli assalti del Bogside, con la conseguente ristrutturazione interna all’IRA, erano ormai guerra.

Di quella tragica domenica, permangono delle indelebili istantanee: su tutte, Edward Daly, Vescovo di Derry, che corre con un fazzoletto bianco tenuto a mo’ di bandiera, completamente imbrattato di sangue, mentre cerca inutilmente, assieme ad altri, di portare in salvo il diciassettenne John Duddy, appena colpito al petto da una pallottola.

 

La via tortuosa nella storia

Nonostante la guerra civile tra unionisti e repubblicani – fondamentalmente tra irlandesi – abbia visto stragi caratterizzate da un maggiore numero di morti, in termini assoluti, per singolo episodio (Dublino 1974, Birmingham 1974, Omagh 1998), l’efferatezza e la “gratuità” (termine orribile ma che forse pone l’accento al meglio sull’insensatezza di quella repressione) dei gesti compiuti dalle forze dell’ordine verso pacifici civili, fanno della Bloody Sunday il simbolo dell’inutilità e del male di questo conflitto, probabilmente anche grazie al ruolo del cinema, dell’arte e della musica, che l’hanno scolpita così prepotentemente nell’immaginario collettivo.

Quella data, in verità, è stata uno spartiacque, giacché la lotta era appena cominciata e la violenza si radicalizzava: arriveranno nuove misure repressive, le bombe, esecuzioni extragiudiziali, la Thatcher e il suo disconoscimento nei confronti dei prigionieri (politici) declassati a semplici criminali comuni, la tortura, gli H–Blocks, come pure Bobby Sands e gli scioperi della fame nel carcere di Long Kesh, con i patrioti irlandesi lasciati morire nel 1981.

Fortunatamente arriverà anche un timido e formale processo di pace, che culminerà nell’Accordo del Venerdì Santo del 1998; un accordo che almeno nominalmente metterà fine ai Troubles, con un tributo in termini di vite umane – in poco meno di trent’anni di conflitto –  superiore a 3.500 individui.

Nell’ultimo lustro comunque anche questo faticosissimo passo ha rischiato di essere messo in discussione dalla Brexit, oltreché da un clima che si sta facendo nuovamente torbido.

D’altronde, troppo spesso, di fronte a ferite così grandi – e al di là di ogni decisore politico – il confine reale, per meglio dire la trincea scavata, più che fisica, è nelle anime e nelle menti.

Resta comunque il fatto che di fronte a processi di tale portata, l’errore più macroscopico che si possa commettere resta quello non soltanto di non voler ricordare ma anche quello di non ripercorrere una via già battuta, che la storia ha cesellato duramente.

Lorenzo Proietti (da barbadillo.it)

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