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Bienvenido de nuevo, Carlitos- di Teo Parini

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Il gioco del tennis, disciplina complessa mai ce ne fosse una, trova il suo meraviglioso compimento quando il giocatore che sa fare più cose guarda tutti dall’alto. Sembra un’ovvietà ma non essendo per nulla scienza esatta, e considerate le implicazioni psicologiche tirate in ballo senza riserve da un meccanismo diabolico, non è affatto detto che ciò accada e così può essere che Federer abbia lasciato per strada una cinquantina di Slam o che Kyrgios chiuderà la carriera senza averne vinto manco mezzo.

La proporzionalità che lega il numero di frecce al proprio arco al numero di trofei in bacheca non è diretta e, a banale riprova di ciò, il più vincente di ogni epoca sarà per molti anni Djokovic, uno che di meriti sportivi ne ha infiniti ma che non potrà certo essere ricordato come il giocatore di più ampio spettro.

L’omologazione dei campi con annesso rallentamento delle velocità della palla, il progresso tecnologico dell’attrezzo e le strategie robotiche di preparazione fisica, uniti alla complessità mentale intrinseca richiesta dal gioco, paradossalmente (ma non troppo) tendono a favorire gli interpreti capaci di spingere a livelli di eccellenza un’unica linea di gioco sparagnina e conservatrice che, ripetuta all’infinito sempre uguale a sé stessa, dispensa l’atleta dal dovere prendere decisioni in corso d’opera, semplificando così la gestione mentale del match e, soprattutto, limitando statisticamente la possibilità di compiere scelte errate nei momenti di scarsa lucidità.

Banalizzando, poche cose certe e fatte bene compendiate da una strategia che non preveda variazioni sul tema. Del resto, la storia di questi ultimi vent’anni ha dimostrato che se attacchi all’arma bianca e fantasia fanno vendere i biglietti, è la difesa mourinhana che poi fa sollevare le coppe salvo rare eccezioni.
Detto così, lo scenario pare non essere florido, infatti non lo è se si aggiunge che ragazzacci con quasi quattro decadi all’anagrafe ancora bullizzano le nuove generazioni. Fortunatamente, però, arriva sempre qualcuno mandato dalle divinità del tennis a ribaltare il tavolo con tutte le carte sopra per riportare l’ex gioco della pallacorda alla bellezza dei pionieristici albori. Carlos Alcaraz, per esempio, uno di quelli che danno del tu alla pallina, capace di risolvere con una forma di talento purissima le insidie che gli vengono proposte. Potenzialmente un campione epocale perché, tornando all’inizio, con la racchetta sa fare una quantità impressionante di cose. Ma la brutta notizia per gli avversari è che, per una volta, questa disarmante completezza tecnica si accompagna più alla concretezza che alla follia. Carlitos, in altri termini, non è esteta naif, un po’ pazzoide e scellerato sperperatore di capacità come altri che l’hanno preceduto, dentro di lui arde il fuoco del dominio ed è pronto a sacrificare gli anni migliori per primeggiare.

Infatti, risolta la noia fisica che gli ha impedito con ogni probabilità di prendersi il primo Major stagionale in Australia lasciando via libera al solito Djokovic, si è immediatamente ripreso ciò che gli spetta per desossiribonucleico, la prima posizione nel ranking mondiale. Per farlo ha polverizzato nella finale del 1000 di Indian Wells uno che non perdeva un match da diverse settimane e che, prima di impantanarsi in un loop negativo che l’aveva estromesso temporaneamente dai piani alti, aveva dato evidenti segni di dominio, Daniil Medvedev. Il russo capace con il suo scoraggiante tennis anti ortodosso di mettere fine al sogno Grande Slam di Djokovic. Insomma, uno molto forte ma che nella notte americana ha potuto fare davvero poco per contrastare un Alcaraz versione fiume in piena, quella riservata alle occasioni speciali.

In poco più di un’ora di gioco, lo spagnolo ha ribadito un concetto peraltro già scritto con la vernice indelebile: in selezionati momenti transita su traiettorie non percorribili da altri. Del resto, cambia rotazioni, angoli e traiettorie di continuo, alterna ferro e piuma quando colpisce la palla e ha una delle migliori transizioni da difesa ad attacco che si ricordi a memoria d’uomo. È l’equivalente tennistico del calcio di Cruyff, quello che a quel tempo si definiva totale, e non si batte. In ogni caso – ma il discorso sarebbe più articolato – questo Alcaraz rivaluta in parte la settimana del nostro Sinner che proprio contro il nuovo numero uno al mondo ha perso in semifinale ma in maniera nemmeno così tanto severa, almeno in quanto a punteggio, e quindi resta in lizza per garantirsi lo scettro di primo tra gli umani.

Il murciano – non a caso conterraneo dell’altro Embatido, l’Alejandro Valverde del pedale – risolve l’annoso problema di palato a coloro che, più che al numero delle vittorie, sono affascinati dal modo in cui queste maturano; il come più che il quanto. In tal senso, Carlos Alcaraz costruisce successi di soli materiali pregiati. Il dopo Federer, unito all’imminente ritiro di Murray e Wawrinka, sempre a proposito di alfieri della qualità globale che avremo presto modo di rimpiangere, farà un po’ meno male. Anzi, con questo diavolo in giro per il mondo, il divertimento per gli anni a venire è assicurato.

Bentornato, Carlitos.

di Teo Parini

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