Baggio, Caniggia, Zoff, Baresi: l’altro calcio (e l’altra voce, elegante e suadente) di Bruno Pizzul

L'analisi, e l'omaggio, di Teo Parini

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C’è stato un calcio diverso da questo, una versione che non ci piace più. Un calcio orfano dei patron, più tifosi ruspanti e passionali che business addicts, a metterci prima la faccia e poi il portafoglio. Pilotato, ora, dai famigerati fondi di investimento e trasformato in fiction dalla pioggia battente di petrodollari. Un calcio diverso, oggi.

Senza più la certezza della domenica, senza i difensori a fare i difensori e non le dame di compagnia e gli attaccanti che, per fare dieci gol a stagione, non devono più necessariamente essere fenomenali, oltre che scaltri a sopravvivere. Un calcio, quello di allora, che, infatti, ergeva a idoli gente come Maradona e Van Basten, mica Neymar e Vinicius. Un calcio, non a caso, raccontato in maniera diversa. Da cronisti competenti, senza la presunzione di essere considerati le star di un evento bello in quanto tale, mica perché edulcorato da menestrelli, imbonitori e urlatori seriali che dalla meravigliose tradizione latina hanno emulato, e pure male, solo ciò che non avrebbero dovuto emulare, la caciara.

Cronisti discreti e misurati, dediti alla narrazione più che alla sopraffazione. E se Nando Martellini ci costringe a tornare indietro più di quanto la memoria ci consenta, almeno senza scomodare il sentito dire, Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Ezio Luzzi e tutta quella generazione sono state le voci che hanno raccontato l’ultimo calcio prima delle pay per view, degli spezzatini orchestrati dai palinsesti televisivi e delle radioline incollate alle orecchie. Delle maglie senza soprannomi da Instagram sulle spalle ma, in compenso, con i numeri identificativi di un ruolo, appunto, identitario. Della diretta tivù, ma solo se a giocare è la Nazionale o c’è la Coppa dei Campioni e, vivaddio, solo di mercoledì. Maglia azzurra, appunto, che per quasi un ventennio ha avuto una sola voce iconica, quella di Bruno Pizzul, che, se oggi lo si ricorda con affetto e nostalgia, è perché ad un passo dal suo ottantasettesimo compleanno ha lasciato questo mondo. A modo suo, in punta di piedi, senza darsi troppa importanza.

Mediano di rottura, all’epoca i faticatori del soccer li si chiamavano così, Bruno provò inizialmente a darsi una chance da calciatore militando, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, nel Catania, prima di vestire le maglie di Ischia, Udinese, casa sua, e Sassari Torres. Tecnicamente così così, trasformava la mole in un plus (passava il metro e novanta) quando a centrocampo si faceva a sportellate e finire per terra, più che un fallo peraltro mai sanzionato, era considerata una sconfitta personale. Così, poco più che trentenne, Bruno capisce di poter dare il meglio al microfono, tanto che già nel 1969 fa il suo ingresso in RAI, in un inscindibile sodalizio che durerà tre decenni. Il cruccio, forse più nostro che suo, è che, lui, la Nazionale non l’abbia mai vista vincere, come invece accadde in Spagna al suo maestro e predecessore Martellini e ai suoi non sempre auspicabili successori in Germania. In mezzo, Pizzul ci ha raccontato la storia irripetibile, anche se privata del suo lieto fine, dell’estate italiana, del pupazzetto tricolore Ciao, della voce di Edoardo Bennato e Gianna Nannini, degli occhi operai, spiritati e incendiari, di Totò Schillaci. Con le sue corse forsennate a festeggiare gol che hanno tenuto incollata alla televisione una nazione più unita ed orgogliosa di quanto non sia oggi.

Ma anche la delusione americana, quattro anni più tardi. L’afa asfissiante di Pasadena, il Brasile meno talentuoso di sempre, le contraddizioni di Arrigo Sacchi e i maledetti rigori sbagliati. Le lacrime di Franco Baresi, le mani nei capelli di Roberto Baggio e il suo sguardo incredulo. Roby, forse il preferito di Pizzul, e come dargli torto. In totale, ha commentato cinque Mondiali e quattro Europei, tanto che la nostra generazione ha pensato a lungo che non potesse esistere altra voce al di fuori della sua. Non sapendo che l’avvento del nuovo millennio avrebbe portato in dote un calcio triste, nemmeno parente di quello che sostituì. La sua, fu una narrazione semplice – come il calcio, del resto, ed è un complimento – ma allo stesso tempo colta oltre che misurata, perché senza inutili iperboli. Studi classici, prima, e da avvocato, poi, Bruno fu uomo dall’aria pane e salame più fiumi di vino bianco, una sua passione insieme all’immancabile sigaretta, e giocatore di carte, un po’ come tutti quelli genuini di un tempo. Un uomo rassicurante.

Pizzul ha un lascito espressivo che ricordare è sempre un’emozione. Se con “Partiti“ era solito aprire la telecronaca, “Tutto molto bello” era, invece, il suo personalissimo modo di elogiare uno spettacolo giunto al suo acme. Locuzioni geniali che abbiamo fatto nostre quali, per esempio, “bandolo della matassa”, quando un campione era in grado di risolvere con maestria una situazione di gioco intricata, “cincischia”, il modo gentile per indicare che un giocatore non sapesse nel frangente che pesci pigliare o, ancora, “sventola da fuori area”, a descrivere un tracciante scagliato con forza da lontano, sono ormai l’imperituro patrimonio genetico del gioco che ha contribuito ad impreziosire. Ma è il suo “Ed è gol” che ha il merito di farci sentire ancora come quei bambini che guardano lo sport con spirito incontaminato.

“Ed è gol”. Quando Baggio si mangia mezza difesa della Nigeria – “Come giocano, questi?”, sempre a proposito di citazioni – o quando Savicevic disegna nel cielo di Atene la parabola perfetta. Doverosamente, lo stesso tono di quando l’incubo Caniggia, nano tra i giganti, uccella Zenga e spegne il sogno nazionalpopolare e, ancora, di quando è l’implacabile rapace Trezeguet a sottrarre agli azzurri un Europeo già vinto. Se a lasciarci sono quelli come Bruno Pizzul che hanno saputo raccontare con trasporto una nostra passione grande è, in aggiunta al rammarico per Chronos che non farà sconti neanche a noi, come perdere un pezzettino della nostra storia, un fratello maggiore. Ora che il calcio è un “Grappolo di uomini”, meravigliosa espressione anche questa, senza scrupoli dietro alle scrivanie e senza amore in mezzo al campo, ad essersi estinti sono anche i suoi cantori. Quelli che senza spocchia congenita, tipico atteggiamento di chi non ha bisogno di ostentare competenza per esibirla, finiscono sempre per insegnarci qualcosa di bello.

“È stato un piacere raccontare la Nazionale, nonostante tutto”, disse a valle della sua ultima telecronaca, con gli Azzurri sconfitti tra le mura amiche dalla non irresistibile Slovenia. Sì, Bruno, è stato davvero un piacere l’aver condiviso con te un bellissimo cammino. Fai buon viaggio.

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