La storia recente di questo sport si fonda su un assioma: battere Djokovic è impresa complessa, farlo sul filo di lana è pressoché impossobile. Ciò, perché quando i serbatoi della benzina si svuotano e nell’economia del gioco la supremazia della testa sui muscoli assume una sproporzione marcata, nessuno ha il fosforo e il killer instinct del serbo. Portarsi Djokovic in volata è come giocarsi lo sprint in bicicletta con van der Poel, una morte (quasi) certa.
Che Jannik Sinner lo abbia fatto, chiudendo un match spalla a spalla con autorevolezza, assume, pertanto, diversi significati. Innanzitutto, ne certifica il sopraggiunto livello acquisito, più che in termini di gioco, quelli erano evidenti da un pezzo, di blasone. Dei top player, infatti, Jannik fino a ieri era l’unico a non poter vantare in bacheca almeno uno scalpo di Novak e la lacuna, oltre che statistica, era proprio una questione di handicap psicologico. Perché, scendere in campo e pensare di poter battere il numero uno al mondo è una cosa ma farlo sapendo di esserci già riuscito in passato è tutta un’altra. L’aver sfatato il tabù, in tal senso, può rappresentare il turning point decisivo nella carriera dell’azzurro.
Non che sia un tipo avvezzo alla beneficienza, anzi, ma pur non essendo la consueta partita da dentro o fuori – il Master, infatti, è l’unica eccezione alla regola tennistica del “chi perde va a casa” – Djokovic ha provato in ogni modo, anche ai limiti della correttezza, a fare suo l’incontro. In altre parole, il successo è tutta farina del sacco di Sinner che ha affrontato il serbo nell’unica maniera che portasse con sé una chance di vittoria, quella del maratoneta che esce dai blocchi di partenza col piglio del centometrista. Pochi calcoli e ancora meno fasi interlocutorie, quindi, un martellamento incessante. Panatta, per l’occasione spalla tecnica in cabina di commento, scherzando ma non troppo, alla domanda su cosa dovesse fare Jannik per vincere rispondeva laconico: tirare forte e sulle righe. Vecchio marpione, l’inarrivabile Adriano, perché è quello che ha fatto Sinner per tre ore, contro uno che se gli spari addosso col bazooka dà il meglio di sé.
Servizio chirurgico da una quindicina di ace, anche se un pelo calante sulla distanza; dritto robusto, sporcato negli effetti il giusto e letale sulla traiettoria anomala, come si chiamava una volta l’inside out; rovescio da PlayStation, piatto e con velocità di crociera ipersonica; smash efficace e, soprattutto, affidabile. Certo, volèe e smorzata restano ancora colpi troppo spesso tremebondi ma, a scavare bene, nemmeno Federer fu immacolato. O forse sì, ma lo svizzero mica giocava a tennis, dipingeva. Insomma, la partita pressoché perfetta. Nonostante il piccolo passaggio a vuoto che, una volta avanti per quattro giochi a due con il servizio a disposizione nel terzo e ultimo parziale, lo ha poi costretto agli straordinari che più straordinari non si può, un tie-break decisivo al cospetto del Djokovic in modalità uno contro tutti. Ma la reazione tutta testa e calma serafica, esibita una volta riacciuffato nel punteggio e sopraffatto nell’inerzia, non è che un altro mattone posato nella costruzione dell’autostima brutale che deve possedere un aspirante dominatore come giustamente Sinner ambisce a diventare.
Il perché Djokovic sia simpatico ai più come una cartella esattoriale lo ha ribadito in maniera esaustiva il match di ieri. Se rigettare la sconfitta è sempre prerogativa dei grandi campioni, farlo sulle pieghe del regolamento – accentuando, a voler essere comprensivi, una noia fisica per fare ricorso ai servigi del fisioterapista allo scopo di spezzare il ritmo sfavorevole del match, o inscenando la consueta battaglia di rumore contro il pubblico, sempre in chiave di disturbo dell’avversario, e contro l’arbitro, idem come sopra – non è atteggiamento tale da generare, appunto, empatia, oltre che di scarsa limpidezza sportiva.
Ma si sa, nel sacrosanto principio del winning ugly, teorizzato da un maestro del sotterfugio come Brad Gilbert, vale tutto, anche fuggire in bagno quando non ti scappa. Non è bastato, nonostante una prestazione al servizio degna del suo allenatore, Goran Ivanisevic il miglior battitore di ogni epoca, e la proverbiale capacità di alzare il livello a comando nei momenti topici. Perché, e qui viene il bello, lo ha fatto anche Sinner e pure meglio di lui. Saper innestare le marce alte nel momento del bisogno, senza tremare anche di fronte alla morte, non è aspetto che si allena ma una concessione benevola di madre natura che l’altoatesino si porta in dote e che, ormai da qualche mese, ha imparato a capitalizzare. L’espressione incredula di Djokovic quando si è visto violare la propria comfort zone ha detto tutto.
Siccome non siamo qua a vedere cianfrusaglie, cercando l’obiettività che una performance meravigliosa potrebbe fare venire a meno, si rendono necessarie un paio di precisazioni. Sinner ha potuto godere delle migliori condizioni possibili ma in futuro non sarà sempre così. Il campo che ha la velocità del ghiaccio, un caso isolato nel circuito, e la sfida al meglio dei tre set, descrivono, infatti, la situazione ideale per portare Sinner al suo acme. Perché, ad oggi, ancora non è acclarata la sua capacità di gestire da top player le energie psico-fisiche sulla lunghissima distanza e, inoltre, su campi meno veloci l’allungarsi degli scambi potrebbe essere un favore a chi controbatte più che a chi, come lui, offende. In merito, una risposta importante l’avremo già dai prossimi Australian Open in gennaio quando, per la prima volta, nessuno potrà escludere a cuore leggero Jannik dal lotto dei favoriti.
Sempre per essere intellettualmente onesti, occorre dire un’altra cosa.
Non si può avere la controprova, purtroppo, ma la sensazione è che se questo Djokovic trentaseienne incontrasse la sua versione robotica del 2011 finirebbe con le ossa rotte. Eppure l’altro giorno Rune ci ha comunque perso e ieri Sinner ha prevalso di un millimetro, benché entrambi in formato deluxe. Quindi, il sospetto che il livello globale del tennis sia in questo momento ovviamente alto ma non altissimo è piuttosto fondato. All’uopo, la crisetta di Alcaraz, spedito sulla Terra dagli dèi proprio per non fare rimpiangere il recente passato, desta un principio di preoccupazione. Tornando al Master, il bello (o il brutto) della consolidata formula fa sì che, nonostante una vittoria del genere, per assicurarsi un posto in semifinale senza dover passare per la scure della conta dei set sarà obbligatorio battere Rune, avversario che a definire complicato si rischia di sottovalutarne il pedigree. Ma è giusto così.
Per aggiudicarsi il titolo di Maestro, Sinner – come tutti i colleghi, del resto – ha il dovere di mettere in fila, uno per uno, i più forti. Ieri sera in tre ore di battaglia abbiamo imparato, il diretto interessato per primo, che è qualcosa di fattibile. Anzi, giunti a questo punto della storia del tennis, di piuttosto probabile.