Nemmeno una bestia nera è per sempre. Jannik Sinner aveva inanellato una serie di sconfitte in fila contro Daniil Medvedev al punto da fare pensare che il formidabile gioco di sbarramento del russo fosse per lui definitivamente indigesto. La conferma alla regola mutuata dal calcio per la quale, se gli attacchi fanno vendere i biglietti, alla lunga sono le difese a fare vincere le partite. Invece, dopo sei scoppole pedagogiche, a Pechino non troppe settimane fa, lo studioso Sinner ha invertito la rotta e con due set in fotocopia chiusi al tie-break ha fatto suo match e torneo. Che non fosse un caso isolato lo si è capito da lì a poco quando, questa volta a Vienna, a prevalere è stato ancora una volta l’azzurro. Jannik, al termine di una lunga rincorsa cominciata a Marsiglia tre anni e mezzo prima, dimostrava di aver agguantato il livello del numero tre del mondo, depositario di un tipo di gioco fastidioso come forse nessun altro. Con queste premesse, in aggiunta all’inerzia favorevole che le recenti vittorie gli hanno garantito, Sinner è sceso in campo quest’oggi, ovviamente contro il moscovita, per la partita probabilmente più importante della sua giovane carriera, il lasciapassare per la finale delle ATP Finals. Le condizioni al contorno erano le migliori possibili: campo indoor veloce come il ghiaccio e tifo amico plebiscitario.
Il meglio che c’è per far valere il bombardamento, in questo momento, più feroce del circuito. Jannik, istruito alla perfezione dalla lungimiranza di Cahill unita alla vitalità di Vagnozzi, ha svolto così bene il piano assegnato. Medvedev non ha affatto giocato male, anzi, a testimonianza della velocità di crociera che ha impostato Sinner qui a Torino e che per ora nessuno è riuscito a seguire fin sotto allo striscione d’arrivo. Una statistica significativa già a metà del primo parziale vedeva Sinner in un vantaggio schiacciante, quella dei punti vinti negli scambi sotto i cinque colpi. Tradotta, significa che in una corsa impostata con il piede pigiato sull’acceleratore è Jannik quello con le marce più alte. Medvedev, conscio di ciò, ha provato a essere più propositivo del consueto per non farsi aggredire già ad inizio scambio, denotando sagacia tattica, ma ciò non gli è bastato per arginare la valanga azzurra.
Il primo parziale è volato via piuttosto in fretta. Sinner, avanti per quaranta a zero nel terzo game e con un gioco per parte a referto, si incarta inaspettatamente e quattro punti in fila vinti dal russo gli costano una sanguinosa palla break che annulla con il servizio, prima di mettere in ghiaccio un importantissimo turno di battuta. Al cambio di campo, con gli attori a ruoli invertiti, si ripropone lo stesso identico copione ma in questo frangente un rovescio affossato in rete da Medvedev dà a Sinner il break che, di fatto, decide il primo set. Perché, da lì in poi, il match segue l’ordine dei servizi fino al 6-3 finale senza sussulti degni di nota. Non essendo bravi a vedere tappeti, bisogna riconoscere che, tifo campanilistico a parte, non ci si è divertiti oltre al minimo sindacale, garantito dal ritmo forsennato caratterizzante gli scambi e poco altro.
Secondo set e niente di nuovo. Match che scorre rapido, scandito dall’efficacia dei servizi e zero concessioni alla fantasia. Medvedev si ostina a rispondere da lontanissimo per la gioia dello slice di Sinner ma, in compenso, la battuta è una sentenza che lo tiene alla larga dai guai. L’impressione è che basti davvero un nonnulla, un piccolo passaggio a vuoto, per indirizzare un parziale decisamente equilibrato. Sinner sbanda un po’ solo nel corso di un estenuante game numero otto, nel quale Medvedev ha anche la palla del 5 a 3, ma, come forse più giusto per quanto visto in campo, si va al tie-break con qualche piccolo rimpianto anche per l’altoatesino, in un paio di occasioni ad un soffio dalla palla break. In una giornata meno brillante di altre volte al servizio, Sinner adesso fatica un po’ a condurre le operazioni, complice anche un vistoso calo di aggressività, e l’allungarsi dei rally comincia a favorire un maratoneta come Daniil che, al contrario, continua a mettere giù servizi deflagranti con la puntualità di una cartella esattoriale. Scontato l’epilogo, 7-6 che parla russo e contesa che sarà quindi decisa dal terzo set.
Con il dj che malauguratamente imperversa sulle tribune, Medvedev si concede i servigi del fisioterapista, in quella che è una pessima e generalizzata abitudine contemporanea, mentre Sinner, zompettando a bordo campo, prova a riordinare le idee non particolarmente sagaci della fine del secondo parziale, oltre che a non raffreddare troppo il motore. Jannik ha un piccolo vantaggio, è lui a servire per primo. Adriano Panatta, in cabina di commento, è lapidario quanto lucido: per prendersi la finale, a Jannik serve tornare ad essere quello di inizio match: asfissiante e sbrigativo. Fare match di corsa, lapalissiano, può essere un suicidio. Compito eseguito alla perfezione già nel secondo game nel quale Sinner, alla terza occasione utile, strappa il servizio al numero tre del mondo che, per la verità, ci mette molto del suo con un doppio fallo finale. Così, in un amen, è tre a zero Italia. Fiamma rossa dell’ultimo chilometro decisamente vicina.
Medvedev è furibondo, un po’ con sé stesso e molto col pubblico mai particolarmente scorretto. Il servizio continua ad essere la sua stampella più efficace ma, adesso, il punteggio fa sì che il match si giochi nei turni di un Sinner che in questo momento sembra in controllo, come quelle volte in cui Alain Prost, presa la testa della corsa, si rendeva inattaccabile pur senza strafare. Tanto che, avanti già per quattro giochi a uno, la terza palla break a suo favore ha il profumo del match point. Per quello vero è questione di qualche minuto: Medvedev non c’è più e per Sinner vuole dire finale. La prima di sempre per un azzurro nell’ATP Finals con il titolo di Maestro che, adesso, dista solo un passo. Che maturità, Jannik. E che giocatore.