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Ashleigh Barty, la maga aborigena del tennis- di Teo Parini

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Mentre il mondo del tennis celebra con tutta l’enfasi del caso il dodicesimo Roland Garros di Rafael Nadal, per distacco il più grande agonista dell’era open e forse di ogni altro sport in uguale periodo, lo stesso mondo farebbe bene a rallegrarsi per un accadimento passato ai più sottotraccia ma di una rilevanza sportiva assoluta: la vittoria di Ashleigh Barty in Porte d’Auteuile nel torneo femminile.

Ogni volta che il più bravo, dunque chi vince, è anche il più talentuoso, colui che meglio degli altri è in grado di gestire le situazioni tecnicamente più complesse, è infatti l’apoteosi della disciplina. E in un tennis stereotipato e asintoticamente destinato alla noia, che per giunta sul mattone tritato esaspera, se possibile, il trionfo della ripetitività del gesto quale chiave del successo, l’affermazione di un’artista della racchetta come l’australiana è manna dal cielo per chi rifugge dal risultato quale motivo unico di attaccamento allo sport. Se il bello è per definizione questione soggettiva, nel tennis arioso e imprevedibile di Barty si raggiungono, proprio in quanto a bellezza universale, picchi di oggettività impressionanti, costruiti sulla varietà delle soluzioni che fanno di un gioco d’antan rivisitato in chiave moderna l’antidoto finalmente vincente all’omologazione. Quindi lode.

Non è tutto. Perché il cammino della piccola Ash, centosessantasei centimetri a essere generosi in una generazione di giganti, che questa mattina si è svegliata insignita del numero due nel ranking mondiale è stato tutto fuorché ordinario. Un’andata e ritorno all’inferno prima del lasciapassare per il paradiso. Nata a Springfield, un piccolo borgo del Queensland, da un impiegato del governo e una radiologa, Barty ha scoperto il tennis a soli cinque anni, per ribellione. Manco a dirlo. Ash non voleva saperne di giocare a netball come le sorelle maggiori e papà Robert pensò bene di accompagnarla al circolo sotto casa. Jim Joyce, che per credo professionale mai accettava bambini di quell’età, fece per lei un’eccezione dopo averla vista rispedire al mittente una pallina da tennis con una naturalezza a tutto braccio, come si dice in questi casi, e una coordinazione piedi-occhio-braccio che di ordinario non aveva nulla. Il fortunato sodalizio nacque così, per folgorazione.

Una racchetta di legno più pesante di lei fu la compagna di gioco che ne caratterizzò i primi anni di vita, spesi tra la scuola e interminabili momenti al muro, palleggiando come una trottola conto un avversario che non sbaglia mai. Joyce, il suo mentore, sul taccuino organizzato in due colonne annotava, osservandone la crescita, pregi e limiti, adoperandosi affinché questi ultimi potessero evolvere in motivo di forza. Per sopperire a una conformazione brevilinea si convinse ben presto a fare di Ash, favorita da una dotazione smisurata di talento, un mostro di completezza tecnica. Joyce intuì che il gap nei confronti delle rivali fisicamente più prestanti avrebbe potuto essere colmato solo perseguendo il mantra della varietà. Barty, in altri termini, doveva saper fare più cose di chiunque altra. Più fioretto che clava, più ingegno che forza, più geometria che gamba. Più di tutto, insomma. Per il principio secondo il quale se non puoi abbatterlo allora logoralo. Gutta cavam lapidem, dicono i latini.

Il risultato di un lavoro eccezionale è oggi sotto gli occhi di tutti. Ashleigh esibisce competenza in ogni settore del gioco. Footwork da ballerina classica, rapidità da centometrista, velocità di braccio, utilizzo completo, anche esasperato se serve, delle rotazioni e delle traiettorie, intelligenza tattica, capacità di lettura delle situazioni, solidità nei colpi e nella psiche, gioco di volo e, pare un ossimoro, doti da big server. Per chi ancora nel 2019 crede che senza leve oversize non sia possibile dotarsi di un servizio efficace. Affrontare Barty è la garanzia inviolabile di non poter mai colpire due volte di fila la stessa tipologia di palla, stante una proposta capace di stravolgere sé stessa a ogni impatto. Chi si è cimentato nello sport del diavolo sa quanto ciò renda difficoltosa (per l’avversario) l’interpretazione di un match. Ashleigh, per farla breve, ti manda ai matti.

Tornando agli esordi, non sono certo mancate le difficoltà. La vittoria nel torneo juniores di Wimbledon a soli quindici anni fece emergere contestualmente un problema latente. Ash non era serena. Tenne duro, coriacea, affacciandosi da predestinata e col fardello di aspettative enormi sulle spalle nel mondo dei Pro ma la depressione, lo sappiamo bene, non fa sconti. Un titolo WTA, la classifica che si impenna, tre finali Slam in doppio con l’amica Casey Dellacqua prima dell’implosione. “Voglio una vita normale”, disse, da adolescente. Come darle torto. Barty allora torna a casa, va a pescare, gioca a cricket. Qualche antidepressivo. Dopo due anni di pausa sembra definitivamente persa per il tennis, una disdetta, ma è pur sempre la felicità a non avere un prezzo. E il tennis resta pur sempre un gioco. Ma Ash non è felice, almeno non lo è ancora, nemmeno senza l’assillo della vita da atleta. E lo capisce proprio facendo la cosa che le riesce meglio.

Quasi per gioco chiede a Casey in prestito una delle sue racchette: “Voglio fare due palleggi”, disse in un pomeriggio apparentemente come tanti. Non lo era. Dopo un paio di dritti sparati con un misto di emozione e gioia insieme, il fuoco si era acceso di nuovo. Quello dell’agone, che fa di un tennista una persona speciale. Manca poco a Natale, anno 2016, e Barty celebra il suo secondo personalissimo matrimonio con il tennis. Tennis che, con la sopraggiunta maturità, ha riscoperto essere un pezzettino indissolubile della sua anima inquieta. Il resto è il cerchio che si è chiuso lo scorso sabato in Bois de Boulogne nel tempio degli eterni Moschettieri. Due settimane perfette come non se ne ammiravano da tempo. Assistere, un privilegio.

Carnagione olivastra e nasino schiacciato, Ash esibisce senza ombra di dubbio le sue origini aborigene. Per la precisione, la sua nonna paterna apparteneva alla tribù dei Ngarigo – il popolo della montagna – qualche migliaia di uomini stanziati fra lo stato del Victoria e il New South Wales. Sangue autoctono, dunque, proprio come Evonne Goolagong, vincitrice a Parigi nel 1971 e da sempre sua grande ammiratrice, tanto da pronosticarne in tempi non sospetti un radioso futuro. Fortunatamente non si sbagliava. A Parigi, Barty non partiva certo con i favori del pronostico e, come sempre accade nell’arco di un torneo estenuante lungo due settimane e sette match, anche un pizzico di buona sorte ne ha baciato il cammino. Indipendentemente da tutto, soprattutto a beneficio di chi pensi a Barty come all’effimera parabola di un carneade, Ash non sfigura, anzi dà lustro imperituro a un albo d’oro che annovera le più grandi campionesse del passato. E se la piccola aborigena finirà per vincere meno di loro, ma chi può dirlo, la qualità luminescente del suo elargire tennis fa di lei fin da ora una delle incontrovertibili spiegazioni per le quali lo sport che fu di Martina Navratilova possa assumere talvolta i connotati di un esercizio di stile meraviglioso.

Ogni aborigeno è tenuto a un’iniziazione alla vita. E lo deve fare attraverso il cosiddetto walkabout, un pellegrinaggio mistico senza meta, dove il collante è la musica quale elemento aggregante dell’universo e strumento di identità del popolo. Nello sport, come nella vita del resto, ogni viaggio inizia sempre con un passo e Asgleigh Barty, quello che porta diritto all’Olimpo, lo ha appena compiuto. Per lei, e per noi aficionados romantici il giusto, l’auspicio è che questo trionfo possa essere solo il primo di una serie più lunga possibile perché, considerato il contesto, se ne avverte davvero un gran bisogno.

E allora bentornata Ash, piccola grande illusionista dai mille trucchi. Stupiscici ancora.

Teo Parini

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