La 12a edizione del FFDUL si è conclusa, con la speranza di impedire nelle persone “l’assuefazione” alla violenza ed al male al quale assistiamo impotenti ogni giorno, attraverso i notiziari.
In apertura i co-direttori Antonio Prata e Margherita Cascio hanno voluto specificare come al di là dei concorsi istituiti, nel caso del Film Festival Diritti Umani Lugano, non si tratta di una vera e propria competizione, poiché tutte le storie valgono e tutte le storie prendendo in considerazione aspetti differenti dei diritti umani, ma allo stesso tempo è bello che 4 film su 8 in concorso, quest’anno siano stati premiati o menzionati.
In questi giorni i già citati giurati Cătălin Cristuțiu , Alin Taşçıyan e Laila Alonso Huarte, hanno motivato i premi assegnati. (La Huarte non ha presenziato alla conferenza stampa per motivi professionali che l’hanno portata a rientrare a Ginevra).
Alin:
“Ho trovato Lugano molto calma e molto bella. Ma debbo ammettere che dopo Istanbul, qualunque posto è più tranquillo.
Ringraziamo molto per la gentilezza e l’ospitalità ovunque siamo stati ricevuti, inclusi alberghi e ristoranti.
Questo festival da parte sua è stupendo ed eclettico, perché permette di vedere i diritti umani da punti di vista differenti, grazie a tutte le storie diverse selezionate con questi film. Era difficile decidere chi premiare, ma semplice allo stesso tempo, perché eravamo molto in armonia fra noi”
Cătălin:
“Ho avuto modo di visitare molti poli culturali, come il Museo d’Arte Moderna e spero questo weekend di riuscire ancora a fare qualche escursione.
Penso che sia molto importante avere questo tipo di festival, perché mette sotto gli occhi della gente comune delle storie che altrimenti non conoscerebbero. Sono film normalmente difficili da raggiungere, visto che non vengono di norma inclusi nei programmi dei cinema cittadini. La selezione è varia, perché è un mix tra film storie vere, documentari e film di finzione. In questo modo si riesce ad ottenere un pubblico più ampio, rendendo molto frequentati anche i dibattiti sui diritti umani.”
Come sono stati scelti il film.
Alin:
“Nonostante i film siano molto differenti, di grande qualità, ognuno meriterebbe di ricevere un premio, ma solo uno vincerà il Palmarès.
Partendo da questo presupposto, abbiamo scelto il film che ci ha toccato di più. Abbiamo scelto quindi il film con più livelli di diritti umani”
Con un tocco di umorismo, Cătălin ha spiegato:
“Si, penso che alla fine è stato facile metterci d’accordo, perché siamo tutte persone ragionevoli – ride -, quindi non ci siamo picchiati per scegliere il film vincitore! Tutte le discussioni avute fra noi nel corso della settimana, ci hanno portato ad una scelta unanime”
Dopo questa introduzione, c’è stato l’annuncio vero e proprio dei vincitori, con le motivazioni.
Il Miglior film, premio della giuria:
“Letters from Wolf Street ” – abbiamo scelto questo film perché subito dopo la proiezione, quando camminavamo verso il nostro albergo, tra noi si sono accese discussioni piene di passione, immedesimandoci nella tragedia vissuta in quel strada di una città polacca, dove il protagonista, che ha ideato questa storia, si trova a vivere da immigrato dall’India, con il suo amico, che poi è stato sopraffatto nostalgia. Il film poi mette in luce tutta la discriminazione ed il razzismo, ma nonostante questo, con buon umore continua a lavorare e a produrre il suo film. Questa storia diventa un microcosmo, non solo polacco, ma anche simbolico per tutto il mondo dell’Est. Io adoro Ariun Talwar come regista”.
Ha preso la parola Antonio Prata:
Il Premio ONG Amnesty International quest’anno va a “How to build a library” di Maia Lekow e Christopher King; mentre il Premio del Pubblico è stato assegnato a gran voce a Promis le ciel di Erige Sehiri.
Ha preso parola Margherita:
“È importante il premio ONG perché mette a frutto la collaborazione con le associazioni non governative, che hanno un ruolo importante nell’appoggiare il FFDUL. Si tratta di una giuria indipendente i cui membri vengono scelti da Amnesty International, e avranno guardato i film con uno sguardo diverso rispetto a quello della giuria cinematografica, e con degli obiettivi più corrispondenti alla loro missione. Questa pluralità di sguardi è una ricchezza per il festival. Il Premio del Pubblico invece per noi è sempre un test in un piccolo festival come il nostro, dove è un ottimo traguardo riuscire a coinvolgere tutti e fare in modo che il pubblico voti. È ancora sperimentale, e la Città di Lugano si è messa subito a disposizione per finanziarlo, così come Banca Stato.”.
Ha ripreso la parola Prata:
“La speranza è che questi film abbiano davanti un nuovo percorso, grazie a come sono stati lanciati dal nostro festival, magari approdando nelle sale cittadine su tutto il territorio svizzero.”
Al momento nel quale è stata data la parola a tutti i presenti, io sono intervenuta per sottolineare come il film Promis Le Ciel, abbia trasmesso tutta la disperazione di vite sospese senza un futuro, che hanno cercato di unirsi per poi perdersi nel nulla, disgregandosi, come il volto di quella bimba priva di documenti… Solo il cielo rimane promesso…
Bruno Bergomi, giornalista, ha mediato tutta la conferenza e in conclusione, ha osservato come gli aspetti sottili di alcuni film, come il vincitore ambientato in Polonia, ci mostri come a volte la violenza può essere presente anche se non evidente come nelle guerre; oppure come una riscoperta della biblioteca in Kenya, che fa da fulcro di integrazione soprattutto per i giovani, possa offrire ancora della speranza. “Ciò che accomuna questi film è una certa introspezione dei sentimenti che va oltre quel che vediamo ai telegiornali”.
La menzione speciale della giuria:
“My Dear Theo” di Alisa Kovalenko.
Commento di Margherita Cascio:
“Questo film parla di guerra, ma lo fa in modo intimo, attraverso questi scritti epistolari di una madre al figlio piccolo. Vi è poi il linguaggio della video-call, già visto in altri film in concorso, e che, nonostante in certi casi i mezzi a disposizione fossero pochi, hanno permesso lo stesso di costruire film e storie efficaci ed importanti. Si tratta dunque di un linguaggio, quello delle lettere, molto più intimo di quei grandi film diciamo epici basati sui vari drammi, vi è l’offerta quindi anche di una auto analisi degli autori stessi, partendo da crisi grosse che sfociano in crisi interiori, portando tutto dal grande verso l’interiorità di chi la crisi la vive o l’ha vissuta”.
Cătălin:
“Penso che i problemi del singolo siano nettamente legati a quelli grossi nei vari Stati, come nel caso dell’Est, come l’attacco informatico attuale russo, che sta distorcendo l’informazione; quando scoppia una guerra è già troppo tardi, ed intanto assistiamo alla diffidenza verso il prossimo ed ad un ritorno verso la Chiesa per questo motivo, come visto nel film vincitore”.
Gli ultimi film da me visti e l’ultimo dibattito.
Una annotazione: a causa dell’incertezza del traffico ferroviario, mi sento di riferirlo, ho dovuto rinunciare all’ultima proiezione di uno dei film premiati, citati in conferenza; per questo motivo, desidero, visto il suo valore umano particolarmente prezioso in un periodo storico come quello attuale, perlomeno citarne la trama dal catalogo:
THE LIBRARIANS, di Kim A. Snyder, USA, 2025
La Trama segue bibliotecari americani nella loro lotta contro la censura dei libri, scatenata da iniziative come la “Krause List” in Texas.
Il film mostra come questi professionisti siano diventati combattenti per la libertà, difendendo il diritto di leggere contro minacce e leggi che mirano a criminalizzare il loro lavoro, in un periodo di aumento dei divieti di libri basati su tematiche come razza e identità LGBTQIA+
Ora le mie ultime due recensioni.
LETTERS FROM WOLF STREET, di Arjun Talwar
Polonia, Germania, 2025
Tutta la storia è ambientata in una strada polacca, chiamata “Ulica Wilcza”, ossia come da titolo, ‘La Strada del lupo’.
Il protagonista è un giovane regista indiano, laureatosi 5 anni prima, che ha lasciato il proprio Paese ed un futuro da matematico, per tentare, su proposta del suo migliore amico, la fortuna cinematografica in Polonia.
Non due poveri rifugiati partiti perché affamati, quindi (e questo sfata il mito che vuole sempre lo straniero proveniente da questi Paesi, spostarsi per bisogno), ma due giovani curiosi che, mi duole dirlo, pensavano che la Polonia fosse a tutti gli effetti un Paese moderno, molto “europeo”, e vero fulcro di una civiltà molto diversa dalla propria.
Diversa, sicuramente…
Personalmente, anche se la mia opinione non dovrebbe forse entrare nella recensione, non comprendo come possano essere partiti senza informarsi bene… Mi duole il loro dolore!
L’amico dopo 10 anni, si toglierà addirittura la vita; e Arjun resterà solo in una società dove la discriminazione è a volte velata ed implicita, a volte capace di sfociare in violenza vera e propria. Inoltre il suo lavoro è considerato come “vero lavoro” che dovrebbe svolgere uno straniero? O invece un’attività da ‘perdigiorno’?
Perché Arjun, di carattere mite, gentile e sorridente, non torna a casa da un Paese dove in oltre dieci anni è rimasto quell’ ‘altro’, quello sconosciuto, quell’essere umano pericoloso solo perché dalla pelle scura? Mi sono fatta un’idea personale, che non emerge completamente alla luce del sole, ma la terapeuta dove lui si reca settimanalmente da anni (e che sembra quasi una delle sue poche ‘relazioni sociali’), pare andare a parare proprio su quel tasto…
È comunque una domanda alla quale lui stesso non risponderà mai in modo preciso, nel trascorrere di giornate all’apparenza senza senso, se non quello di voler raccontare ad ogni costo la propria storia in un film, ambientato in una Polonia cattolica, rigida, che si sta trasformando nella nuova culla della Destra più estrema, disposta a rinnegare anche il proprio recente passato…
“WHISPER IN THE DABBAS”, di Garin Nugroho Si tratta del film del regista vincitore del Premio Diritti Umani FFDUL 2025.
Indonesia , 2025
La storia ci mostra alcuni casi veri di sopruso giudiziario su dei cittadini semplici e di pochi mezzi.
Una anziana contadina viene accusata di aver rubato da una coltivazione ed è bastata la falsa testimonianza di un uomo, per farla condannare.
Un altro coltivatore viene accusato di spacciare per indigeni dei prodotti che secondo gli ufficiali sarebbero “ibridi”.
A difenderli una avvocatessa che dovrà adoperarsi per farli scagionare grazie ai ricorsi.
Ricorsi costosi, che in alcuni casi hanno cagionato ingenti perdite di proprietà.
L’ombra oscura è quella degli interessi degli organi sovrastanti, che infrangono ogni diritto umano per mantenere i propri guadagni privilegiati.
Come sottofondo, peculiarità tipica dei film di Nugroho, diversi brani pop e tradizionali, appartenenti al repertorio indonesiano; brani che sottolineano la malinconia e la rassegnazione dei protagonisti, difronte ad un sistema che non possono cambiare.
In finale, scorrono le immagini di archivio dei processi con i loro tristemente reali protagonisti.
Dopo la proiezione è seguito un dibattito molto interessante a sala quasi piena.
I temi trattati hanno toccato aspetti molto variati, incluso quello riguardante la tirannia occulta (ma forse neanche tanto…), che in realtà vige anche in Occidente.
Debbo dire che mi dispiace che in questo caso, una mia domanda sia stata fraintesa, ma evidentemente non sono riuscita a spiegare bene quale fosse la sottigliezza alla quale mi riferissi… Di sicuro non intendevo chiedere se “il suicidio fosse tipico dell’Indonesia” (alcuni protagonisti si troglieranno la vita in modalità molto drammatiche, in seguito ai torti subiti…).
In realtà, ciò che mi ha colpita in questo senso, è stato un intento dei suicidi che reputerei quasi auto-punitivo: uno di loro addirittura si seppellisce vivo!
Certamente alcuni dettagli fanno parte di una drammaticità cinematografica, volta a intensificare nella percezione del pubblico il dolore estremo dei protagonisti; ma ciò che pensavo di chiedere, è se questa visione dell’infliggersi una ulteriore “punizione” nel torto già così grande subito, fosse un tipico aspetto culturale che appartiene ad alcune frange orientali.
DENTRO LA RIVOLUZIONE SIRIANA – DIARIO DI UN INVIATO, docu-reportage di ANDREA NICASTRO.
A dicembre 2024, è stata firmata la “fine” di una devastante guerra in Siria, durata quasi 14 anni, guerra intesa come il conflitto che il mondo conosce, ma che, dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad, ha lasciato il posto a conflitti civili sparsi, fame e forte povertà.
Nicastro ci mostra vari aspetti della Siria attuale, come ad esempio il palazzo del caduto dittatore oggi abitato dai ribelli oppure, i registi dei civili torturati e mai tornati a casa, come le terribili ‘carceri-mattatoi umani’, conscio del grave pericolo che i giornalisti corrono a trovarsi lì, soprattutto in un momento di grande instabilità e di passaggio verso (si pensa), un nuovo governo.
Il dibattito seguito dopo la proiezione, ha avuto per ospite Daniele Piazza e come moderatore Danilo De Biasio, direttore del FFDU di Milano e fondatore della specifica Fondazione italiana.
Doveva essere presente lo stesso Nicastro, che ha dovuto purtroppo per noi, tornare in Medio Oriente.
Durante questa conferenza in sala, tra i vari aspetti, è emerso il ruolo dell’informazione radiofonica via Internet, oggigiorno ancora come la più libera e veritiera in territori di guerra.
A cura di Monica Mazzei
freelance culturale per TicinoNotizie.it