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Dall'archivio:

Adieu, princesse solitarie. Silvia Bordoni, Abbiategrasso, l’essenzialità dell’inessenziale.. e le (in)capacità dell’Amore- di Fabrizio Provera

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A soli 44 anni- era nata nel febbraio del 1978- è morta sabato 16 aprile Silvia Bordoni. Cresciuta ad Abbiategrasso, amante dell’arte, del teatro, regista e documentarista, ha dedicato la sua breve ma intensa vita alla ricerca più lievemente e sofficemente estatica: quella che, tramite la recerché, porta lungo i binari tribolati dell’essenzialità dell’Inessenziale.

Perché la Cultura, il Sapere, non rispondono alle logiche dell’apparato materico. Ma dell’Anima: a detta di gran parte della cultura dominante, poco più che una superstizione. Questo è il mio ricordo.  Di me che l’avevo conosciuta, cercando- forse invano- di relegare in un pertugio della coscienza la consapevolezza che il possesso non è MAI una forma d’amore.

Tra i suoi molti lavori di pregio il documentario ‘Agosti, seul avec tous’, dedicato al cinema indipendente di Silvano Agosti, ispiratore di Fabio Volo e ‘architetto’ della Kirghisia e del film D’Amore si vive (1984)
 
ABBIATEGRASSO – “Aprile è il più crudele di tutti i mesi. Genera lillà dalla terra morta, mescola
memoria e desiderio, desta radici sopite con pioggia di primavera”.
 

“Quali radici si afferrano, quali rami crescono
su queste rovine di pietra? Figlio dell’uomo
tu non lo puoi dire, né immaginare
perché conosci soltanto
un cumulo di frante immagini, là dove batte il sole.
E l’albero morto non dà riparo
e il canto del grillo non dà ristoro
e l’arida pietra non dà suono d’acqua”. (Ts Eliot, The Waste Land)

Scarpe col tacco color nocciola. Gonna lunga, color panna. Capelli raccolti. Una giacca leggera a fasciare il tuo corpo di giovane donna. I sassi della piazza di Vigevano. Un bar qualunque. Non importava dove, ma cosa. E come. Poi a casa. Doveva essere così rigidamente forzato, e invece il desiderio si fa puro se lo vuoi. Tu. Se lo volevi, tu. Non c’era modo di capire, per me. Ma c’era la speranza, viva dentro di te, di superare la montagna oscura della concupiscenza di  possesso che confondevo con la parola e l’esercizio dell’amore. Era un divenire, il tuo, che t’avrebbe portato lontano. Dai luoghi,  dalle menti consolidate e aduse al grigio rassicurante che promanano i giorni così uguali a se stesssi. Credo fosse aprile, anche quella sera.

Siamo gli uomini vuoti
Siamo gli uomini impagliati
Che appoggiano l’un l’altro
La testa piena di paglia. Ahimè!
Le nostre voci secche, quando noi
Insieme mormoriamo
Sono quiete e senza senso
Come vento nell’erba rinsecchita
O come zampe di topo sopra vetri infranti
Nella nostra arida cantina

Figura senza forma, ombra senza colore,
Forza paralizzata, gesto privo di moto;

Coloro che han traghettato
Con occhi diritti, all’altro regno della morte
Ci ricordano – se pure lo fanno – non come anime
Perdute e violente, ma solo
Come gli uomini vuoti Gli uomini impagliati.. (Pino Pollina)

Pensavo che l’orizzonte della musica d’autore si esaurisse con e nella triade De Andrè-De Gregori-Battiato, e invece  tu mi schiudevi porte inascoltate (per me) e sconosciute, segno evidente del tuo confuso (ma deciso) camminare per vie parallele. Pino Pollina, Mercanti di Liquore, Joan as a Police Woman. Era una musica diversa. Era una SENSIBILITA’ diversa. La tua.

Dori e io non ci siamo conosciuti da ragazzini. Avevamo già due personalità ben definite che fortunatamente ancora conserviamo: in questo senso ci siamo modificati solo quel tanto che basta. Abbiamo imparato ad accettare e rispettare le reciproche manie e insofferenze.
Mi fido solo di lei, in ogni senso. Mi ha conosciuto che ero uno sbandato, e senza prediche, senza imposizioni mi ha cambiato. Per lei provo ammirazione, riconoscenza.

(Fabrizio De Andrè)

Oltre il muro dei vetri si risveglia la vita
Che si prende per mano
A battaglia finita
Come fa questo amore che dall’ansia di perdersi
Ha avuto in un giorno la certezza di aversi
Acqua che ha fatto sera che adesso si ritira
Bassa sfila tra la gente come un innocente che non c’entra niente
Fredda come un dolore Dolcenera senza cuore
Atru de rebellâ
 nu n’à â nu n’à
Altro da trascinare
Non ne ha non ne ha
E la moglie di Anselmo sente l’acqua che scende
Dai vestiti incollati da ogni gelo di pelle
Nel suo tram scollegato da ogni distanza
Nel bel mezzo del tempo che adesso le avanza..
Avevi colto che solo quell’unione, così forte eppure senza l’apparenza di solidi appigli, quella tra Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi, fosse l’epitome del Possibile che tuttavia era sempre stato, soprattutto per me, impossibile.

 

Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.
Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.
E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere –
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so. (Mariangela Gualtieri)

Così grande come te

Senza tempo nè un perché

Vivo sin darme quenta

A veces sin esencia

Vivo sin saber como

Sin conocer nada y todo

Vivo con impaciencia

A veces sin esencia

Si no tu estas a mi lado.

“Mentre l’autobus attraversava il deserto, guardavo assonnato i brandelli di nuvole d’argento che si spostavano in cielo, e il mare grigio-verde di sterpaglia spinosa sparsa sulle ondulazioni del terreno e la polvere bianca che il vento sollevava dalle saline e, all’orizzonte, la terra e il cielo che si fondevano, mescolando e annullando i loro colori”.

“Quello che ho fatto è stato prendere la Patagonia come simbolo dell’irrequietezza umana. E scrivere un libro che fosse una specie di metafora della nostalgia dello spazio”.

Spazi, volti, luoghi, tempi. Abbiategrasso, Milano, Siracusa e il teatro Greco. E poi Brescia, Roma, la Francia, i poderi della Sardegna, palme di orienti estatici. Eri costantemente lontana, mentre io- stupidamente- confondevo il tuo STARE qui con l’ESSERE qui. Anatomia dell’irrequietezza.

 

Quando ti ho persa tesoro a volte penso di aver perso anche il mio coraggio
E vorrei che Dio mi mandasse una parola,
Mi mandasse qualcosa che potessi avere paura di perdere
Distesi nell’afa notturna come prigionieri per tutta la vita
O brividi lungo la schiena e tutto ciò che voglio è stringerti forte
(Chorus)
Giuro che guiderò tutta la notte solo per comprarti un paio di scarpe
E assaporare il tuo dolce fascino
E voglio solo dormire stanotte ancora fra le tue braccia

When I lost you honey sometimes I think I lost my guts too
And I wish God would send me a word
Send me something I’m afraid
Lying in the heat of the night like prisoners all our lives
I get shivers down my spine and all I want to do is hold you tight
Baby, baby, baby, I swear I’ll drive all night again, just to buy you some shoes
And to taste your tender charms
And I just want to sleep tonight again in your arms
Oh yeah, oh yeah
https://www.youtube.com/watch?v=r8qpTL1wxGQ&list=RDGMEM6ijAnFTG9nX1G-kbWBUCJAVMxvzkR5j5pBw&index=8
Milano, Bologna, Firenze. Un agriturismo, dalle parti di Pistoia. Sui colli. La cucina confina col crepitìo del camino. La generosità delle patate cucinate sulla grata. La voluttà del Vin Santo. In apparenza, ancora, tutto così rigidamente forzato. Si schiudono le geometrie. S’amplifica, e si appaga, il desiderio. I capelli sciolti al vento, nella camera con vista sul  bosco. Inquieti, anche loro. La pace, dopo il desiderio,
Con la nebbia i lampioni
Disegnano liane di luce in una giungla di cemento
Ci hanno dato tutto, ci hanno tolto tutto
Poi ci hanno detto: “Lascia un commento”
Ci hanno detto: “Vivere è una corsa, quindi corri
Lo capirai solo al traguardo”
Ci hanno dato un cuore in mezzo alle gambe
Ma senza le istruzioni per usarlo
Ci hanno dato il piombo, ci hanno dato il fango
Ci hanno chiesto: “Quando diventate grandi?”
E nonostante tutto
Abbiamo ancora gli occhi rossi
Come quelli dei conigli bianchi
Ci hanno detto: “Niente dura per sempre
Tranne la musica, quella rimane”
Ma per fortuna io ho incontrato te
A chi darai la bocca, il fiato
Le piccole ferite
Gli occhi che fanno festa
La musica che resta
E che non canterai?
E dove guarderò la notte
Seppellita nel mare?
Mi sentirò morire
Dovendo immaginare
Con chi sei
Gli uomini son come il mare
L’azzurro capovolto
Che riflette il cielo
Sognano di navigare
Ma non è vero
Scrivimi da un altro amore
E per le lacrime
Che avrai negli occhi chiusi
Guardami, ti lascio un fior
Di immaginari sorrisi
Che ne sarà di me e di te?
Che ne sarà di noi?
Vorrei essere l’ombra
L’ombra di chi ti guarda
E si addormenta in te
Da piccola ho sognato un uomo
Che mi portava via
E in quest’isola stretta
Lo sognai così in fretta
Che era passato già
Avrei voluto avere grandi mani
Mani da soldato
Stringerti così forte
Da sfiorare la morte
E poi tornare qui
Avrei voluto far l’amore
Come farebbe un uomo
Ma con la tenerezza
L’incerta timidezza
Che abbiamo solo noi
Gli uomini, continua attesa
E disperata rabbia
Di copiare il cielo
Rompere qualunque cosa
Se non è loro
Scrivimi da un altro amore
Le tue parole
Sembreranno nella sera
Come l’ultimo bacio
Dalla tua bocca leggera
https://www.youtube.com/watch?v=FxgxtlGZWvw
Che abbaglio, ricercare nell’eterna irrequietezza le leggi della stabilità. E perché chiedersi dov’eri, e con chi. Spogliato dell’egoismo possessivo, la notte calda di Villa Arconati schiudeva il suo bagliore notturno nell’accoglienza generosa del piacere. C’erano voluti quindici anni. Col sorriso, e senza bisogno di parole, m’avevi impartito un’altra lezione. Le acque, placide, scorrevano testimoni della quiete. 
Libertà l’ho vista svegliarsi
Ogni volta che ho suonato
Per un fruscio di ragazze
A un ballo per un compagno ubriaco
E poi se la gente sa,
E la gente lo sa che sai suonare
Suonare ti tocca
Per tutta la vita
E ti piace lasciarti ascoltare
Finii con i campi alle ortiche
Finii con un flauto spezzato
E un ridere rauco
Ricordi tanti
E nemmeno un rimpianto


 

 

Riportami nelle zone più alte
In uno dei tuoi regni di quiete
È tempo di lasciare questo ciclo di vite
E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai
Perché le gioie del più profondo affetto
O dei più lievi aneliti del cuore
Sono solo l’ombra della luce
Ricordami, come sono infelice
Lontano dalle tue leggi
Come non sprecare il tempo che mi rimane
E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai
Perché la pace che ho sentito in certi monasteri
O la vibrante intesa di tutti i sensi in festa
Sono solo l’ombra della luce

 

Il tempo è passato. Il tempo, almeno quello terreno, è finito. Ondeggianti mareggiate di silenzio oscuro avvolgono il mio camminare periclitante. Non s’ode più alcun canto. S’avviluppa solo il mio eterno incedere attorno al sorriso bianco e allo sguardo che rimanda a caldi atmosfere tropicali.

“La grande mareggiata da sud, estate 1962. Dei tempi passati ricordo un vento che soffiava attraverso i canyon. Era un vento caldo chiamato Santa Ana che portava con sé il profumo di terre tropicali. Aumentava d’intensità prima del tramonto e spezzava il promontorio. Io e i miei amici spesso dormivamo in macchina sulla spiaggia, e il rumore del mare ci svegliava. E così all’alba sapevamo già che sarebbe stata per noi una grande giornata…”

E adesso, d’ora in avanti, solo una vastità immensa di apparente silenzio. Anche sullo scherno del telefono. Come stai? Tutto bene? Ma certo.. Da allora, cala il sipario. Ora, soltanto una nuova trama. Incapacità amandi: quasi sempre la stessa, per me. Soltanto una donna c’ha provato così tanti anni, ad avvilupparla come una crisalide di negazione che si potesse schiudere in ali d’autentica, sincera, disinteressata affezione. Ma soprattutto.. Non piangere ora No, non piangere ora Asciuga i tuoi occhi piccola ragazza Asciuga i tuoi occhi. Giuro che guiderò tutta la notte Attraverso il vento, attraverso la pioggia, attraverso la neve.

E solo averlo sfiorato, quell’estatico, umido camminare tra le vie di Parigi. Rimasto, sempre, soltanto un anelito fugace.

Lo so, lo so che questo non è cipria, è sorriso…

e sì, che non è luce, è solo un attimo di gloria

e riguarda me, che sono qui davanti a te sotto la pioggia

mentre tutto intorno è solamente pioggia e Francia…

Chissà cosa possiamo dirci in fondo a questa luce…

quali parole, luce di pioggia e luce di conquista…

hum… lasciamo fare a questo albergo ormai così vicino,

così accogliente, dove va a morir d’amore la gente…

Io e te, chissà qualcuno ci avrà pure presentato…

e abbiamo usato un taxi più un telefono più una piazza…

Io e te, scaraventati dall’amore in una stanza,

mentre tutto intorno è pioggia, pioggia, pioggia e Francia…

«Ecco, ora svaniscono, / i volti e i luoghi, con quella parte di noi che li amava, come poteva. / Per rinnovarsi, trasfigurati, in un’altra trama». 
Adieu, princesse.

Fabrizio Provera

 

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