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Abbiategrasso Sanremo: chapeau a Mathieu (Van Der Poel), torrente che rompè gli argini- di Teo Parini

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Gli altri pensano, studiano tattiche, fanno programmi, interrogano parametri. Lui se ne frega, fa e vince. Telecomandato da una forma purissima di istinto e talento, risponde in maniera perfetta alla legge del ciclismo per la quale non è sufficiente vincere ma, per i tifosi quelli puri, è fondamentale come lo si fa.

E lui, Mathieu, è il torrente gonfio di pioggia che rompe gli argini, non primeggia, esonda. Perché nell’epoca che fa del ciclismo una scienza quasi esatta dimostra che è ancora possibile trattare la disciplina come farebbe un bambino alle prime pedalate, con illogico entusiasmo. Quello che sul Poggio gli fa decidere di stampare uno scatto atomico sulla faccia di Pogacar e van Aert, uno solo ma fatto bene, di quelli che lasciano pietrificati sui pedali i malcapitati che hanno la sfortuna di subirlo. Lo scatto, appunto, esercizio dinamico che sta al ciclismo come il dritto di Juan Martin del Potro sta al tennis e il gancio di Roberto Duran, la mano di pietra, sta alla boxe. O l’attacco solare, quello del Daitarn 3, sta alla fantasia dei più piccoli. Risolutore.

Che van der Poel fosse un predestinato epocale non era cosa difficile da intuire. Per come ha vinto, giovanissimo, l’Amstel Gold Race, per esempio, con una volata lunga come una fuga, che può sembrare una contraddizione in termini ma l’ha fatto davvero. Oppure per come si è confermato cacciatore di corse Monumento con la doppietta al Fiandre, l’università dei muri, o come si è preso la maglia gialla al Tour e la rosa al Giro, impreziosendo con inesausta fantasia tappe per solito governate dall’attitudine sparagnina.

Mathieu, non più tardi di un mese fa a Hoogerheide faceva suo il mondiale di ciclocross.
Ieri, dopo un intermezzo antipatico che come spesso gli accade ha interessato la sua schiena di cristallo, nemmeno fosse la cosa più naturale al mondo ha messo il sigillo sulla Classicissima di primavera, di fatto un altro sport. Pareva imballato le scorse settimane, lontano dai primi nelle gare preparatorie, con i sedicenti addetti ai lavori già pronti a decretare l’avvicinamento fallimentare alla stagione delle classiche. Tutto sotto controllo: un fenomeno di tale risma circoletta di rosso l’appuntamento, entra in modalità killer solo quando conta, fiuta l’odore del sangue e si avventa sulla preda. La differenza ontologica che passa tra un gigante di quelli che saprebbero primeggiare in qualunque disciplina ludica se solo lo volessero e un grande corridore.

Grandi successi presuppongono grandi avversari, tanto per scomodare de la Palice. Quelli messi in riga ieri sul lungomare di Sanremo, con un Filippo Ganna meraviglioso secondo e che un giorno, con un pizzico di intraprendenza in più, potrebbe essere lui ad alzare le mani sotto lo striscione. I trecento chilometri che portano da Milano alla città dei fiori possono apparire troppi, eccessivi dunque noiosi. Al pari delle sette ore in sella, infarcite di inevitabile tatticismo. Ma la mezz’ora finale di una corsa che conta cento e più edizioni alle spalle è poesia, un quadro di Mondrian, un assolo di Mark Knopfler. Il Poggio è silenzio e frastuono, tripudio di wattaggi, fosforo e quadricipiti fumanti; la sua discesa è un cavatappi impazzito disegnato da Mordillo, quindi tecnica sopraffina oltre che uno schiaffo alla paura. Poche cose al mondo ripagano le attese come sa fare il Poggio, infatti a prendersi la scena sono solo i migliori interpreti. Poulidor, per dirne uno. L’eterno secondo sull’asfalto ma il più amato per distacco dai sempre esigenti francesi, capaci di preferirlo financo ad un mito come Anquetil, che a Sanremo nell’ormai lontano 1961 si scoprì capace anche di imprese vittoriose, oltre che di emozioni. Poupou, che ci ha lasciato da poco, aveva, anzi ha, un nipote: Mathieu van der Poel, proprio lui. Che belle storie racconta il ciclismo, eh?

L’insegnamento, ammesso se ne sentisse l’esigenza, dell’abbacinante prova di forza impartita dal neerlandese è inequivocabile. Quando si appiccica il numero sulla schiena, il rischio per gli avversari che si debba correre per la piazza d’onore è drammaticamente molto alto. Se talento, cuore e fantasia si incontrano e si mettono al servizio della bicicletta, il ciclismo non solo diventa qualcosa di meraviglioso ma ha per definizione un lieto fine: per i robot non c’è mai scampo.

di Teo Parini

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