“E così Uccidere un fascista. Sergio Ramelli, una vita spezzata dall’odio di Giuseppe Culicchia (Mondadori, pagg. 235, euro 19) è una tonante arringa d’accusa a un banco degli imputati raramente così affollato. Perché, appunto, lì ci sono (o ci siamo) tutti: i compagni che sbagliano e quelli certi di non sbagliare, le forze dell’ordine che caricarono gli amici intenzionati a portare in corteo la salma dall’obitorio alla chiesa, i magistrati che all’inizio seppellirono l’inchiesta insieme al corpo della vittima e magari quelli che trasformarono l’omicidio nemmeno in «preterintenzionale», ma in «non volontario», traducendolo in pochi anni di carcere per la stragrande maggioranza non scontati.
E poi i servizi segreti, quelli opachi, il governo reticente, il ministero dell’Interno e la Democrazia cristiana che lo occupava, la stampa affetta da daltonismo quando a morire era un ragazzo di destra ucciso da militanti di sinistra, i cattolici di Avvenire che su Ramelli scrissero mostruosità definendolo «picchiatore» ed «estremista», la scuola che nasconderà la targa messa in sua memoria solo decenni dopo e i professori che quel giorno in classe non dissero nemmeno una parola. I cattivi maestri, la Milano vile e quella fanatica che insieme al procuratore della Corte d’appello Bianchi d’Espinosa cercò di mettere fuorilegge Giorgio Almirante e l’Msi spingendo tanti giovanissimi di destra e di sinistra verso l’estremismo, i consiglieri comunali che alla notizia della sua morte data da Tomaso Staiti di Cuddia applaudirono soddisfatti e chi il giorno della sentenza andò in tribunale a chiedere l’assoluzione per i suoi assassini. Forse pure il presidente della Repubblica che non lasciò Roma per andare al funerale nella chiesa blindata dei santi Nereo e Achilleo, con i compagni che fotografavano i partecipanti per rimpolpare l’orribile archivio di viale Bligny 42 con i volti dei «fasci» ai quali «dare una passata». Poi tutti quelli che si girarono e hanno continuato a girarsi e le coscienze latitanti che, sentenzia Culicchia, per quanto si siano sentiti assolti, sono per sempre coinvolti.
Indifferenti, anzi complici anche oggi che si è tornati a mettere Giorgia Meloni, i cartonati dei politici e i loro libri scomodi a testa in giù, dando loro dei «fascisti» per rimarcare quella «differenza antropologica» che giustificava l’«uccidere un fascista non è reato». Una follia nella quale non cadde un pirata come Pier Paolo Pasolini per cui piombo e tritolo non servivano per destabilizzare lo Stato, ma per stabilizzarlo. Forse non solo una delle sue tesi estreme, dato che si contarono 14.495 attentati, 394 morti, 1.033 feriti. E solo a Milano tra il 1972 e il 1977 furono 140 le aggressioni con morti, invalidi permanenti e feriti anche molto gravi. Il fatto, la tesi di Culicchia che dà il senso a un volume ben scritto da uno scrittore, è che «tout se tient».
Ed è per questo che il libro diventa una richiesta di pacificazione, di pietà comune per tutti quei ragazzi e l’omicidio di Ramelli il baricentro intorno a cui rileggere l’ultima storia d’Italia, in una continua guerra civile da archiviare. E sanare, partendo dai sansepolcristi e proseguendo con i partigiani e la Repubblica sociale, Piazzale Loreto, Piazza Fontana e le tragiche morti di Pinelli e Calabresi, il brutale rogo dei fratelli Mattei, i sanbabilini e gli Anni di piombo. Una linea rossa di sangue che parte da un dato autobiografico di Culicchia che ha già scritto Il tempo di vivere con te (Mondadori) sul cugino brigatista Walter Alasia, morto in uno scontro a fuoco con la polizia. Accomunato a Ramelli da una morte troppo precoce, ma con l’avvertenza dell’autore di ricordare che «tu Sergio, al contrario di lui, non avevi scelto di impugnare le armi e non avevi ammazzato nessuno, sei stato ucciso per aver scritto un tema».
Potremmo anche finirla qui. Giannino Della Frattina, estensore delle righe che avete letto poc’anzi, è un’autorevole firma del Giornale di Indro Montaelli (ei fu, ma la grandezza supera il velo del tempo) che poco tempo fa ha riportato in auge, grazie al coraggioso libro di Giuseppe Culicchia diffuso dalla più grande casa editrice italiana, la storia di Sergio Ramelli, 18 anni, assalito a colpi di chiave inglese sotto casa da un manipolo di ‘coraggiosi’ militanti della sinistra extraparlamentare (studenti di Medicina), morto il 29 aprile di 50 anni fa dopo una straziante agonia.
Sergio Ramelli, nel cui nome poche settimane fa è stato presentato un francobollo commemorativo, con gli esponenti di Fratelli d’Italia che lo conobbero (Paola Frassinetti e Romano La Russa) a invocare nuovamente il superamento di quella drammatica stagione dell’odio, fa ancora paura.
Nel Comune di Gaggiano, lungo le placide acque del Naviglio, venerdì 4 aprile- ore 20.45, auditorium comunale di via Dante 1- col coraggioso patrocinio dell’Amministrazione comunale e del sindaco Enrico Baj verrà presentato ‘Sergio Ramelli. Una storia che fa ancora paura’ (appunto..), libro edito da Idrovolante, a cura dell’Associazione Le Radici, alla presenza di Guido Giraudo (autore), dell’onorevole Paola Frassinetti e dell’onorevole Grazia Di Maggio, moderatore Alberto Busacca.
Ed ecco che l’Anpi e frange della sinistra si sono distinte per il revanscismo antifascista: “Le sottoscritte forze democratiche di Gaggiano vedono con preoccupazione la concessione del Patrocinio ad una iniziativa tesa a riscrivere la Storia: una sorta di “rivincita” da parte di forze che nulla hanno a che fare con i principi costituzionali che sono nati proprio dalla lotta nei confronti della sopraffazione fascista”.
E via col solito documento, ne abbiamo letti a migliaia (ma ve lo alleghiamo perché tutti possano leggerlo, integralmente), che si conclude col ricordo di Sergio Ramelli, esponente del Fronte della Gioventù, formazione di estrema destra che nulla ha avuto a che fare con la ricostruzione dell’Italia.
Peccato dimentichino che quando la notizia della morte di Ramelli, 18 anni, giunse al Consiglio comunale di Milano, dai banchi dei partiti di sinistra (e non solo) scattò l’applauso. Plaudirono, complici, vigliacchi, inumani, alla morte di un ragazzo 18enne sotto gli occhi della madre. Colpevole di aver scritto un tema. Non morì soltanto Sergio, quel giorno, ma anche la pietà umana.
Tocca a tutti gli altri, capaci di questa attitudine umana prima che politica, esserci venerdì 4 aprile. Seppelliamo per sempre la stagione dell’odio e dell’inumana mancanza di pietas. Facciamolo, per Sergio Ramelli e per tutti. Senza grottesche distinzioni. Senza rancore. Senza la cieca contrapposizione intinta nel calamio del disprezzo. Provateci anche voi, cari compagni, foss’anche semel in anno.
Fabrizio Provera