Era pienamente capace di intendere e di volere, al momento dei fatti, Dawda Bandeh, 28 anni, di origini gambiane, fermato la sera della scorsa Pasqua, il 20 aprile, all’interno di una villa Liberty di via Randaccio, a pochi passi dall’Arco della Pace, con l’accusa di aver strangolato Angelito Acob Manansala, collaboratore domestico di 61 anni di origine filippina. È quanto emerso dalla perizia psichiatrica disposta dal gip Domenico Santoro nell’ambito delle indagini coordinate dal pm Andrea Zanoncelli.
Interrogato dopo l’arresto, Bandeh aveva raccontato di essere entrato in casa, di aver “mangiato”, fatto “una doccia”, cambiato abiti trovati nell’armadio e di aver “dormito”, negando però l’omicidio. Al risveglio, secondo la sua versione, avrebbe visto un uomo a terra e, preso dal panico, sarebbe uscito dall’abitazione, trovandosi poi circondato dalla polizia.
Una ricostruzione che il gip non aveva ritenuto credibile già dopo il fermo. Nell’ordinanza si parlava infatti di “gravi indizi” a suo carico e si sottolineavano elementi che facevano pensare a una “lucida azione”: il cambio dei jeans poi riposti con ordine, l’indossare altri pantaloni trovati in casa, l’uscita e il rientro nell’abitazione e l’impossessamento di un portafoglio contenente 90 euro e 3mila dollari custoditi in un armadio, lo stesso luogo dove è stato trovato il corpo del collaboratore domestico.
Nei giorni scorsi sono arrivati gli esiti della perizia, discussi anche in udienza, che escludono qualsiasi vizio di mente e mettono in evidenza la sua capacità di “simulare”. Nelle prossime settimane, entro la fine dell’anno, la Procura è pronta a chiudere le indagini in vista della richiesta di rinvio a giudizio.




















