RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO – Egregio Direttore, Possiamo davvero vivere senza smartphone? Riusciamo a stare cinque minuti senza connessione? È curioso: l’assenza del segnale provoca agitazione, ma anche un certo brivido di eccitazione.
Oggi sono uscito per comprare del prosciutto, ma ho dimenticato a casa il mio smartphone — il prolungamento del mio corpo. Mi sono sentito nudo, come un poliziotto senza pistola o un giornalista senza microfono.
In quell’aggeggio di sei pollici c’è tutto: non è più un semplice telefono con rubrica, ma un contenitore della nostra vita intera. Ci sono codici, banche, documenti, ricordi e soprattutto foto… anche quelle più intime.
Tornando a casa, ho sentito un uomo imprecare ad alta voce. La mia prima reazione? Non chiedermi perché fosse arrabbiato o sofferente, ma prendere il telefono per filmare la scena e condividerla sui social.
È come se il nostro primo impulso non fosse più capire, ma riprendere.
Ormai possedere uno smartphone è quasi un lavoro. Molti ci lavorano davvero! Eppure, mi chiedo se non siamo diventati anche un po’ schiavi: schiavi dell’immagine, della condivisione, del bisogno di esserci.
La paura più grande non è più perdere il portafoglio, ma lo smartphone. Restare “fuori rete” ci terrorizza.
Non facciamo più in tempo a parlare di qualcosa, che subito cerchiamo su internet per “verificare”. Ma è davvero lì, sul web, la verità? Non sbaglia mai la rete?
Le dipendenze sono pericolose. Forse, ogni tanto, dovremmo provare a lasciare a casa la nostra condanna digitale. La televisione è stata definita “cattiva maestra”, ma oggi il vero potere è altrove: nei consigli di amministrazione dei giganti del web.
Sarà questa la nuova schiavitù — quella che ci priva dell’empatia, e che trasforma l’oltraggio in spettacolo, la sofferenza in contenuto?
Viviamo osservati e osservatori, in una persecuzione silenziosa che ormai entra anche nelle nostre case”.
A cura di Massimo Moletti




















