Locarno Film Festival 78, la prima parte del report finale della nostra inviata

A cura della corrispondente dal Canton Ticino Monica Mazzei

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La 78a edizione del Locarno Film Festival, tirando le somme, con i film in cartellone si è votata in primis ai giovani, ai bambini, nonché al disagio mentale, e alle donne che si ribellano al potere maschile, passando per ogni forma di diversità, nei diversi intrecci che ne possono scaturire, ma con una innegabile sfumatura orientaleggiante, benché Open Doors fosse votata per questo anno al continente africano, che ha visto vincere il film “Kachifo (Till The Morning Comes)” di Dika Ofom.

Una scelta dettata dal desiderio di accrescere l’empatia nel mondo, nelle persone, e di unirle tutte sotto la bandiera di quell’essere ancora umani, che non conosce frontiere e limiti.
Proprio per questo motivo, non si poteva non sentire aleggiare a più riprese pure quell’immensa catastrofe umanitaria che risponde al nome di Gaza.
Ma procediamo con ordine, visto che la carne al fuoco di queste riflessioni finali, è tantissima; senza dimenticare che la forza di alcune immagini che forse alcuni giudicheranno “eccessive”, in alcune pellicole, in realtà aiutano a superare tabù che spesso servono solo a bloccare e dividere le persone.

Consegnerò il mio report da Locarno78, narrandovi ancora una volta delle più affascinanti premiazioni, di film magici e dei Palmarès 2025, tra i quali due film che ho visto e recensito, e con una breve nota sul Pardo d’Oro 2025 (la lista di tutti i Palmarès, delle categorie e le menzioni speciali, è consultabile sul sito ufficiale del Locarno Film Festival).

Sul Pardo d’Oro al film “Tabi to Hibi (Two Seasons, Two Strangers”) di Sho Miyake:

Si tratta innanzitutto del quarto film giapponese a ricevere il massimo riconoscimento dal festival.
Le motivazioni: “il film è tratto da due storie del fumettista Yoshiharu Tsuge, apprezzato per la delicatezza e profondità con la quale trasforma la realtà in poesia, diventando veicolo di denuncia sociale”. (Cito da fonti ufficiali).

LUCY LIU: IL RICONOSCIMENTO RICEVUTO IN PIAZZA GRANDE E IL FILM “ROSEMEAD”… E IL PRIX DU PUBLIC UBS!

In questa edizione davvero ricca di molti nomi conosciuti al grande pubblico, attrice mondiale di enorme risonanza ad essere più volte premiata, anche la statunitenseLUCY LIU, che in Piazza Grande ha ricevuto il CAREER ACHIEVEMENT AWARD.

Sul palco di Piazza Grande, è stata accolta come colei che ha saputo in oltre un ventennio reinventarsi e raccogliere sempre nuove sfide, come quella di impegnarsi appunto nel duplice ruolo di interprete e produttrice per un nobile scopo.

La sua carriera è iniziata nel lontano 1997 con un ruolo nella serie “Ally McBeal”; e nel suo carnet, film passati alla storia come “Kill Bill”, “Charlie’s Angels”, senza dimenticare la sua attività di apprezzata doppiatrice (ha prestato la voce a lungometraggi di animazione quali “Kung Fu Panda”, e nuovi classici, come “La Storia della Principessa Splendente dello Studio Ghibli”).

Ho avuto l’onore di essere invitata alla registrazione della sua intervista presso la Magnolia di Locarno, e si tratta di una donna, oltre che grande attrice, di grandissimo charme e dalla risata trascinante e squillante, come nei suoi film.

Sarà utile allora iniziare dal film da lei portato in prima mondiale in Piazza Grande, “Rosemead”, per la regia di Eric Lin, dove ha interpretato la madre sola di un adolescente diciassettenne affetto da schizofrenia.
Vedova da qualche anno, Irene, questo il nome della protagonista, si barcamena tra il suo lavoro in un negozio di articoli vari e la malattia del figlio, ma non solo: ella stessa è affetta da un tumore, che scoprirà in breve tempo lasciarle solo qualche mese di vita.

Caratteristica fondamentale, è che il film sia basato su una storia vera e sia stato scelto dalla LIU, con lo scopo di far conoscere questa tragica vicenda umana, se possibile come un monito a chiedere aiuto finché si è in tempo.
Senza spoilerare, vi accennerò che si tratta di un intreccio su più livelli (Irene era anche una immigrata cinese).

Nella scelta di questa interpretazione che vede l’attrice anche in veste di produttrice, c’è stata la profonda tristezza provata nel venire a conoscenza di questa storia.
Lo scopo è di ricordare al mondo intero che tutti soffriamo e che la malattia mentale non deve diventare un motivo di vergogna, sino al punto di rifiutare, come si vede nel film, l’intervento di persone qualificate.
Irene sa che al compimento del 18esimo anno di età, non avrà più diritto di parola sulle terapie per il figlio e sulla gestione della sua patologia; ed il giovane è continuamente ritrovato dalla polizia in stato delirante e confusionale, arteficie di non pochi danni materiali.
Purtroppo il giovane rifiuta continuamente le cure, come molti pazienti, poiché lo stordiscono.

La madre non si è accorta che lui finge di ingerire le pastiglie.
Questo comportamento precipiterà completamente la situazione e Irene ha pochissimo tempo…

Al di là delle critiche mosse dai più a questa madre, mi sono posta due domande: Irene era solo preoccupata “dell’onta della vergogna” per la malattia del figlio? Non direi. Quando una sua amica, immigrata come lei dalla Cina, le propone delle cure simili ad un esorcismo, lei risponde a chiare lettere che doveva occuparsene lo psichiatra. “Somigli sempre di più a questi occidentali!”, commenterà l’altra, facendo spallucce.

Inoltre, Irene parla continuamente del disagio del figlio: è più della propria malattia, forse per orgoglio, che evita di parlare.
Irene era classica donna che non vuole cedere e che si sforza di fare tutto da sola.
Infine, sarà sempre lei a manifestare i propri timori con gli specialisti del figlio, riguardo a dei segnali che conducono alla possibilità di uno sfocio nella violenza della schizofrenia della quale il ragazzo era affetto.
“Sono rari i comportamenti violenti da parte degli schizofrenici”, l’aveva rincuorata il medico.

Ma lei era una donna troppo sveglia per non seguire attraverso i TG, con angoscia, le esplosioni violente di altri giovani come suo figlio, oltre agli indizi inequivocabili di farneticazioni su minacce immaginarie contro le quali armarsi…

A mio avviso, Irene aveva perso la fiducia in quelle figure che avrebbero dovuto prendersi cura del figlio.

Nella polizia ancora di più e forse è qui che si manifesta veramente il suo sentimento di vergogna: lei diventa colei che è da interrogare; e al di là delle critiche, forse si era sentita solo un numero fra tanti.
Cosa può avvenire nella mente di una madre sola che non saprà mai come andrà a finire la vita del figlio, poteva saperlo solo lei.
L’altra domanda: le amiche in fondo, a loro volta, avevano raccolto i segnali da Irene stessa, che fosse nell’aria un gesto estremo?
No. In troppi capiscono solo a fatti compiuti, biasimandone i protagonisti e mai se stessi per la propria cecità…
Quel che è successo secondo me, è il frutto della tragedia della solitudine e del timore del proprio sangue condannato all’infelicità, e a una esistenza, della quale non era più padrone, mentre gli esordi erano stati così promettenti. La delusione e l’amarezza quindi, si sono certamente aggiunte al quadro; senza la sua presenza, il ragazzo avrebbe perso l’unica persona che potesse davvero amarlo e capirlo.
Esistono poi altri livelli ancora, come il legame con un passato che in fondo, né madre né figlio, avevano mai saputo lasciare andare.

Al di là di tutto, il messaggio finale che il film si prefigge è comunque uno soltanto:chiedete aiuto! Comunque crediate vada a finire. Non fate tutto da soli!

Si, anch’io ho provato tristezza, ma si chiama anche empatia. Non troverete un film divertente, è un film per pensare a tutta la vasta gamma di problematiche nelle quali può trovarsi una persona come Irene, cittadina del mondo ma immigrata in un Paese, nel quale non si riconosce più nemmeno in coloro che condividono le sue radici.

A Lucy è stato domandato, nelle due conferenze da lei tenute come ospite al Locarno Film Festival, di rievocare anche le sue origini e la vita con i suoi genitori, immigrati come Irene negli USA, dalla Cina.
Ricorda una infanzia di sofferenza e difficoltà, nella quale tentare la via della televisione e del cinema, era un modo per fuggire da tutto ciò.

Lucy si è rivelata persona bellissima dentro e fuori, quando si è messa a nudo con una profonda umanità, svelando la sua riflessione su di una vita che definisce come la propria “maestra”: aveva tanti desideri frustrati dalla povertà (ha riso, forse un po’ di sé stessa), ma oggi ritiene che quei problemi siano stati in realtà un dono, il dono dell’empatia soprattutto e oggi, è la seconda attrice di provenienza asiatica ad essersi aggiudicata un posto nell’altare della memoria eterna di Hollywood, grazie a quella “stella” tanto ambita, sul “cammino della fama”, come è stato battezzato (“Hollywood Walk of Fame”).

Ha dichiarato che ogni film, molto diverso l’uno dagli altri, per lei è stato una occasione di crescita, insieme a colleghi straordinari; ma che certamente, “Rosemead” ha rappresentato la possibilità di non splendere prima di tutto per la bellezza ed il corpo, come in passato; ma di calarsi completamente in un ruolo difficile ed importante (la sua interpretazione è stata infatti molto intensa).

Bisogna ricordare che la sua carriera vanta anche una interpretazione in un film con un altro grande premiato di quest’anno: Jackie Chan, che la LIU ha definito adorabile, gentile ed “un vero eroe” (il film era “Pallottole cinesi”).

Ricordo infine che il suo film ha ricevuto a gran voce da parte degli spettatori locarnesi, anche il Premio Del Pubblico conferito da UBS!

GLI ALTRI… FILM.

Dando un’occhiata agli altri film che ho avuto la possibilità di vedere, si distingue meravigliosamente (ve lo consiglio di tutto cuore!), per una fusione di poesia, scienza, sentimento e amore quasi spirituale per la natura, nonché per l’approfondimento del nesso tra le tradizioni di un Paese e la sua gestione degli aspetti legati agli interventi medici, “Yakushima’s Illusion”, della regista giapponese Naomi Kawase, proiettato nell’ambito del Concorso Internazionale, alla quale è poi seguito lo screening pubblico con ospiti attori e regista.

L’illusione cui fa riferimento il titolo, è quella del trascorrere del tempo, che in realtà è qualcosa che resta dentro di noi come una caratteristica interiore specifica di ciascuno, e non esternamente all’essere umano.
Si tratta di un concetto di non semplice esplicazione, ma il personaggio maschile (giapponese), lo assocerà alla scelta imprevista ed inaspettata di non produrre alcuna immagine, dei momenti passati con la sua giovane compagna francese, anche ricercatrice in ambito di trapianti di organi, sbarcata nel Paese del Sol Levante per comprenderne le credenze, ed il modo in cui le stesse ostacolano la possibilità di salvare tante vite, soprattutto quelle dei bambini ricoverati nell’ospedale nel quale lavora.

La sua visione sull’esistenza umana è molto diversa da quella di lei, che dovrà elaborarla ed accettarla, e lo spettatore comprende di rimando perché non sarebbe mai stata possibile una di lui mostra fotografica.
Lei al contrario, farà ancora di più: filmando testimonianze interne, elaborerà in collaborazione con gli altri medici e chirurghi, una analisi attuale della situazione sanitaria, prefiggendosi (come verrà spiegato nella conversazione pubblica), lo scopo di fungere da ponte di connessione tra la gestione europea dei trapianti e quella orientale.

La vicenda personale della giovane professionista di mescola altresì a quella professionale, regalandoci frammenti incantevoli come certe tavole dei manga, dove la vediamo bambina, scoprendone i grandi dolori personali, che solo alla fine della storia, scoprirà condivisi per incredibile coincidenza, con il suo grande amore giapponese, scomparso nel nulla.
Un film nel quale Occidente e Oriente si danno la mano, dipingendo un ritratto capace di un inaspettato impatto realistico.

Non posso svelarvi tutto, perché vorrei davvero che lo vedeste!
Vi dico solo che il finale ci narra delle vene dell’Uomo, legate come in un proseguimento fatato a quelle della Terra, attraverso il pulsare del cuore degli alberi secolari, che respirano in comunione con noi, in un’anima sola.

Monica Mazzei
freelance culturale
per TicinoNotizie.it

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