In quella circostanza ci negarono financo lo stadio migliore. Perché il Parco dei Principi, i francesi, lo riservavano solo alle occasioni importanti, quando i Blues erano incentivati ad indossare lo smoking dal blasone dell’avversario. Così, noi cugini considerati poveri e pure un po’ sfigati, con quella spocchia che fa tanto Francia fummo dirottati al Lesdiguières, diecimila posti di capienza e il fascino, si fa per dire, di un campo in periferia. Come dargli torto, a ben pensarci. Alle nostre latitudini, del resto, il rugby era ancora qualcosa che sulla Gazzetta dello Sport, come in tivù, trovava collocazione in fondo, molto in fondo, dopo la serie C del calcio e i rugbisti considerati rozzi omaccioni con i piedi troppo poco educati e il ventre spropositato per fare i calciatori. Così, alla frontiera, perché al tempo i confini erano ancora lontani dal divenire liquidi, il gendarme, riconosciuto il bus con a bordo la nazionale italiana, sfoderò la consueta battuta che da sempre accompagnava le nostre incursioni nella terra della rivoluzione e della Bastiglia: “Vi siete portati la cesta?”. Sottintendendo la quantità di punti che ci saremmo dovuti portare a casa sul groppone.
Quel giorno, però, sul bus degli italiani non c’era troppa gente disposta a scherzare. Perché, piano piano, con il lavoro di George Coste, un francese, si erano costruiti una certa competenza rugbistica e in quella Coppa Europa i meno distratti avevano già intravisto qualche indizio interessante. Nulla che potesse far presagire ad un cataclisma, ma a sfidare la stratosferica Francia, composta per nove quindicesimi dai trionfatori del Cinque Nazioni (con annesso Grande Slam) solo qualche giorno prima, l’Italia schierava una formazione che a rileggerla ora, ventisette anni più tardi, fa tremare i polsi. La mediana di Dominguez e Troncon, il capitano Giovannelli, Cuttitta a tallonare, poi Francescato e Properzi, Giovanelli e Sgorlon. E via via tutti gli altri, gente speciale con una fame bestiale e la propensione a morire sul campo prima di vendere le armi. Così, lo scherno ricevuto dall’ignaro gendarme scivolò via senza lasciare traccia, tra una birra e una sigaretta quali consuete compagne di viaggio.
Siamo nel 1997 e, appunto, il più antico torneo della palla ovale, e più in generale anche del mondo, lo giocano ancora solo cinque nazioni – quattro d’oltremanica e i transalpini – e la massima competizione internazionale a noi riservata è la Coppa Europa che vedeva, appunto, nella Francia la assoluta dominatrice e noi a fare da sparring partner. A Grenoble, però, sarebbe presto successo qualcosa di epocale per lo sport azzurro tout court e per l’universo rugby quella partita assunse immediatamente il significato eterno di madre di tutte le partite. Perché la vincemmo. Una valanga di mete a referto e la perfezione del piede di Dominguez scrissero il 40 a 32 che, per chi c’era, ha rappresentato l’acme della rivalsa, un momento di sport ma anche di vita che fu spartiacque, come tutte le volte in cui c’è un Davide a fare piccolo piccolo un Golia eccessivamente sicuro di sé. La sorpresa fu ovviamente enorme. La portata è quella di Buster Douglas che abbatte Mike Tyson, quello vero. l’Equipe, al solito migliore dei corrispettivi rotocalchi italiani, l’indomani celebrò il nostro trionfo certificando il compimento di qualcosa di insindacabilmente grande.
Piangevano un po’ tutti: noi dalla gioia, i francesi dalla delusione. Meno uno, il nostro George Coste, che a bordo campo in mezzo alla festa già pregustava il volto abbacchiato del gendarme di cui sopra che, infatti, rimase rintanato in guardiola osservando il bus italiano che sfrecciava verso Roma, carico di una soddisfazione indescrivibile. La vittoria di Grenoble cambiò tutto perché l’establishment del rugby, sempre così ostile alle variazioni delle gerarchie ancorate alla notte dei tempi, si convinse a spalancare le porte del futuro Sei Nazioni all’Italia; accadimento che si verificò già tre anni dopo, nulla per le tempistiche del rugby. L’esordio con vittoria ai danni della Scozia di un altro pomeriggio leggendario in quel del Flaminio, pertanto, fu la naturale prosecuzione di quell’impresa meravigliosa. Il resto è storia. Una storia che ci ha visto sconfiggere la Francia in altre due occasioni ufficiali in mezzo a troppe sconfitte sonore ma, si sa, il rugby è sport crudo e poco propenso a fare di un miracolo una consuetudine.
Domenica prossima, a Lille, torna in palio il Trofeo Garibaldi che premia la vincitrice, ovviamente nel contesto del Sei Nazioni, dello scontro non anglosassone tra la nostra nazionale e quella francese. A Lille e non a Parigi, ma questa volta la spocchia non c’entra. La capitale, infatti, è già in clima olimpico e indisponibile a concedersi, quindi tutti altrove. Dove, è bene dirlo subito, non ci sarà un’altra Grenoble ma, così come pronosticato e poi verificatosi con l’Inghilterra all’esordio nel torneo, abbiamo la possibilità di evitare il naufragio e provare a restare in partita piuttosto a lungo. Che nel rugby, dove novantanove volte su cento a vincere è quello meglio attrezzato, vale sempre molto. Poi, chissà, può sempre esserci qualcuno di folle a cui venga in mente di chiederci della famigerata cesta. E un italiano incazzato, a dirlo è la storia, non è mai un bell’avversario. Nemmeno se c’è da schiacciare in meta una palla ovale.